A casaccio, perché le parole spingono e sono troppe, non posso permettermi di rispettare il filo logico di spazi temporali o discorsi terminati e lineari, altrimenti, se tirassi quel filo, si scucirebbe la spontaneità.
Parto da un balsamo che, a sprazzi, lenisce il mio cuore.
Un "Ti voglio bene" e un "Grazie" detti con cognizione di causa, scappati perché troppo veri e sentiti per essere lasciati dentro la carezza di uno sguardo che non avrebbe avuto bisogno di parole.
Due momenti in uno.
E lui stava morendo, ma ancora speravamo. Poter parlare di lavoro lo illuminava e lo rendeva sano. Lui, lo zio per eccellenza, troppo giovane per vederlo andare via, troppo dignitoso per lasciar trapelare una sola parola di autocommiserazione, troppo protettivo per accettare i viaggi delle nipoti, le cure di mia mamma, sorella maggiore che, da quando lui aveva 18 mesi, si è presa cura di lui, il più piccolo di tutti, l'unico che non ha vissuto la mancanza del padre né la disperazione di una madre che doveva fare i conti con il pane in tavola e il bisogno di piangere. Solo la mia mamma ha nel cuore tutto questo, mentre a dodici anni si ritrovava tra le braccia un bambolotto in carne e ossa, perché la nonna doveva lavorare, e lui, lo zio bambolotto di mamma, ignorava la tragedia che si consumava tra le mura di quella casa che lo aveva visto nascere, la stessa casa in cui vivono oggi i miei genitori.
Lo zio.
Cinquantasette anni sono pochi per lasciare la vita ma, quando la vita ti lascia, non guarda la data di nascita.
Lo zio.
Lo stesso che ha accettato una diagnosi terribile, facendo coraggio a noi e assicurandoci che avrebbe lottato fino alla fine, e ha mantenuto la parola.
Lo zio.
Quello che ha fatto piangere le infermiere, perché "non abbiamo mai auto un paziente così malato che avesse la delicatezza di non sporcare o di sopportare senza suonare il campanello".
Lo zio.
Che, due giorni prima che le cose precipitassero, è voluto andare fuori città per controllare se i "suoi ragazzi" fossero a posto con il lavoro imbastito e non avessero problemi. Per dare un paio di consigli e due dritte. Per salutare colleghi e amici e dir loro "mercoledì sento un altro oncologo e dopo questa visita vediamo cosa salta fuori" facendo loro coraggio, così tanto coraggio che alla fine ci credevamo tutti noi, mentre lui sapeva benissimo che il suo destino era segnato dalla stessa bestia che aveva dilaniato sua madre.
Poco più di due mesi per abituarti al fatto che "la gente muore" e che, la gente, non è altro che un gruppo di persone. Tra queste, potresti esserci anche tu a fare i conti con la morte di una persona cara.
Poco più di due mesi per ritrovarti a sperare in un errore o in un miracolo, scartando l'eventualità più papabile e, vedendo la lucidità di un uomo così giovane, oltre la sua decadenza fisica, ritrovarti improvvisamente a sperare e supplicare che perda la ragione e faccia presto a "dormire", perché non si è ancora pronti a usare la parola "morte". Non per lo zio.
Un mese fa gli ho detto grazie, per i suoi consigli lavorativi, che poi erano lezioni di vita che si espandono a tutto.
"Dire sempre la verità, essere onesti e costruire giorno per giorno il proprio lavoro. Perché se sei stato onesto e hai trattato bene le persone, queste non lo dimenticheranno e potrai sempre rialzarti a testa alta."
E lui lo aveva fatto. Era caduto e si era rialzato a testa alta, lavorava circondato da persone che lo amavano e avevano stima di lui.
Quando gli dissi "Grazie" mi sentii in colpa. Lui non stava bene, eppure non sembrava, era felice di poter parlare di qualcosa che non fosse dolore, cure, esami. E poi quel "ti voglio bene" trotterellante dal mio cuore al suo. Non detto sul letto di morte, ma quando era sulle sue gambe e con la voce forte e sicura di mio zio.
Essere riuscita ad andare spesso a trovarlo in ospedale o, quando c'era una festività e gli davano il permesso di uscire una giornata, a casa, mi rende più serena; anche se non voleva che io partissi così spesso, e non capiva che era una mia esigenza esserci e poterlo toccare, abbracciare e guardare.
Lo zio.
Che accorgendosi di un momento di debolezza di mia sorella ci ha detto di essere sereno e che noi dobbiamo stare tranquilli.
"E cosa credi? Muoiono bambini, madri di famiglia giovani come l'acqua, chi sono io per non poter affrontare una cosa così. Cinquantasette anni li ho vissuti, lotterò per averne ancora un po', certo, mi girano un po' le balle perché ho ancora tante cose da fare ma, se non dovesse andare come vorremmo, voglio che stiate tranquilli. Io sono sereno."
E non abbiamo mai più toccato l'argomento.
Lo zio. Che lunedì mi ha vista arrivare e mi ha fatto lo sguardo di rimprovero. Lo zio, che quando gli ho detto "cos'è quella faccia, posso darti un bacino?" ha tirato su il pollice e l'ho potuto baciare due volte, ma alla terza ha girato il viso dall'altra parte, perché voleva proteggere me e lui dall'emozione forte.
Lo zio. Che l'indomani si è addormentato tra le braccia di mia sorella e quelle di mia mamma. Lucido fino alla fine, senza dolore fisico, quello almeno sono riusciti a tenerlo a bada, senza lamentarsi, in silenzio, con i suoi pensieri, il nostro amore e tutto il suo. Dato e da dare.
Più le persone sono grandi e maggiore è lo spazio che occupano.
Oggi c'è un grande vuoto dentro me.
Si dice che il tempo aiuti a guarire molte ferite e penso che le cicatrici servano per non dimenticare. Aspetterò che il dolore si trasformi in nostalgia, accarezzerò il segno che ho dentro e mi consolo come posso, ripensando alla spontaneità di quel giorno di circa un mese fa.
"Grazie zio, ti voglio bene."
"Lo so stellina, ti voglio bene anche io."
Un "Ti voglio bene" e un "Grazie" detti con cognizione di causa, scappati perché troppo veri e sentiti per essere lasciati dentro la carezza di uno sguardo che non avrebbe avuto bisogno di parole.
Due momenti in uno.
E lui stava morendo, ma ancora speravamo. Poter parlare di lavoro lo illuminava e lo rendeva sano. Lui, lo zio per eccellenza, troppo giovane per vederlo andare via, troppo dignitoso per lasciar trapelare una sola parola di autocommiserazione, troppo protettivo per accettare i viaggi delle nipoti, le cure di mia mamma, sorella maggiore che, da quando lui aveva 18 mesi, si è presa cura di lui, il più piccolo di tutti, l'unico che non ha vissuto la mancanza del padre né la disperazione di una madre che doveva fare i conti con il pane in tavola e il bisogno di piangere. Solo la mia mamma ha nel cuore tutto questo, mentre a dodici anni si ritrovava tra le braccia un bambolotto in carne e ossa, perché la nonna doveva lavorare, e lui, lo zio bambolotto di mamma, ignorava la tragedia che si consumava tra le mura di quella casa che lo aveva visto nascere, la stessa casa in cui vivono oggi i miei genitori.
Lo zio.
Cinquantasette anni sono pochi per lasciare la vita ma, quando la vita ti lascia, non guarda la data di nascita.
Lo zio.
Lo stesso che ha accettato una diagnosi terribile, facendo coraggio a noi e assicurandoci che avrebbe lottato fino alla fine, e ha mantenuto la parola.
Lo zio.
Quello che ha fatto piangere le infermiere, perché "non abbiamo mai auto un paziente così malato che avesse la delicatezza di non sporcare o di sopportare senza suonare il campanello".
Lo zio.
Che, due giorni prima che le cose precipitassero, è voluto andare fuori città per controllare se i "suoi ragazzi" fossero a posto con il lavoro imbastito e non avessero problemi. Per dare un paio di consigli e due dritte. Per salutare colleghi e amici e dir loro "mercoledì sento un altro oncologo e dopo questa visita vediamo cosa salta fuori" facendo loro coraggio, così tanto coraggio che alla fine ci credevamo tutti noi, mentre lui sapeva benissimo che il suo destino era segnato dalla stessa bestia che aveva dilaniato sua madre.
Poco più di due mesi per abituarti al fatto che "la gente muore" e che, la gente, non è altro che un gruppo di persone. Tra queste, potresti esserci anche tu a fare i conti con la morte di una persona cara.
Poco più di due mesi per ritrovarti a sperare in un errore o in un miracolo, scartando l'eventualità più papabile e, vedendo la lucidità di un uomo così giovane, oltre la sua decadenza fisica, ritrovarti improvvisamente a sperare e supplicare che perda la ragione e faccia presto a "dormire", perché non si è ancora pronti a usare la parola "morte". Non per lo zio.
Un mese fa gli ho detto grazie, per i suoi consigli lavorativi, che poi erano lezioni di vita che si espandono a tutto.
"Dire sempre la verità, essere onesti e costruire giorno per giorno il proprio lavoro. Perché se sei stato onesto e hai trattato bene le persone, queste non lo dimenticheranno e potrai sempre rialzarti a testa alta."
E lui lo aveva fatto. Era caduto e si era rialzato a testa alta, lavorava circondato da persone che lo amavano e avevano stima di lui.
Quando gli dissi "Grazie" mi sentii in colpa. Lui non stava bene, eppure non sembrava, era felice di poter parlare di qualcosa che non fosse dolore, cure, esami. E poi quel "ti voglio bene" trotterellante dal mio cuore al suo. Non detto sul letto di morte, ma quando era sulle sue gambe e con la voce forte e sicura di mio zio.
Essere riuscita ad andare spesso a trovarlo in ospedale o, quando c'era una festività e gli davano il permesso di uscire una giornata, a casa, mi rende più serena; anche se non voleva che io partissi così spesso, e non capiva che era una mia esigenza esserci e poterlo toccare, abbracciare e guardare.
Lo zio.
Che accorgendosi di un momento di debolezza di mia sorella ci ha detto di essere sereno e che noi dobbiamo stare tranquilli.
"E cosa credi? Muoiono bambini, madri di famiglia giovani come l'acqua, chi sono io per non poter affrontare una cosa così. Cinquantasette anni li ho vissuti, lotterò per averne ancora un po', certo, mi girano un po' le balle perché ho ancora tante cose da fare ma, se non dovesse andare come vorremmo, voglio che stiate tranquilli. Io sono sereno."
E non abbiamo mai più toccato l'argomento.
Lo zio. Che lunedì mi ha vista arrivare e mi ha fatto lo sguardo di rimprovero. Lo zio, che quando gli ho detto "cos'è quella faccia, posso darti un bacino?" ha tirato su il pollice e l'ho potuto baciare due volte, ma alla terza ha girato il viso dall'altra parte, perché voleva proteggere me e lui dall'emozione forte.
Lo zio. Che l'indomani si è addormentato tra le braccia di mia sorella e quelle di mia mamma. Lucido fino alla fine, senza dolore fisico, quello almeno sono riusciti a tenerlo a bada, senza lamentarsi, in silenzio, con i suoi pensieri, il nostro amore e tutto il suo. Dato e da dare.
Più le persone sono grandi e maggiore è lo spazio che occupano.
Oggi c'è un grande vuoto dentro me.
Si dice che il tempo aiuti a guarire molte ferite e penso che le cicatrici servano per non dimenticare. Aspetterò che il dolore si trasformi in nostalgia, accarezzerò il segno che ho dentro e mi consolo come posso, ripensando alla spontaneità di quel giorno di circa un mese fa.
"Grazie zio, ti voglio bene."
"Lo so stellina, ti voglio bene anche io."