mercoledì 23 novembre 2016

Ab imo pectore

Un po' come accade in quei film, quando lei torna nella vecchia casa ormai disabitata da tempo e con la chiave sotto al vaso di coccio, quello vecchio e sbeccato nell'angolo della veranda. Lei si guarda intorno e si fissa sul pavimento color grigio cemento che fa capolino, forse un po' sbiadito, forse un po' irregolare, ma pare che al ragno sembri una reggia, mentre continua a tessere, tessere, tessere e far brillare l'angolo dello scalino che porta al viottolo dell'albero di susine.
L'aria intorno è un tutt'uno con le lastre di porfido, gli alberi hanno abbassato le armi spogliandosi di ogni inutile fronzolo. Lei guarda le foglie macerate dalla pioggia, controllando il verso del vento e la direzione delle nuvole; con il naso insù, arricciato per il puzzo di natura morta, ricordando quel rospo pieno di vermi e l'odore di pioggia di decenni consumati e sbiaditi.
A questo punto lei, e dico quella di quei film, dovrebbe voltare leggermente la testa, attirata dal cigolio sinistro di quel vecchio dondolo che un tempo aveva accolto parenti e amici, l'orgoglio dell'intera famiglia, con l'orecchio teso per ascoltare le risate e il chiacchiericcio sommesso di mamma con le amiche. Un'istantanea a colori così vera che sembra quasi di sentire il tepore del pavimento sotto i piedi scalzi, il ronzio della fresatrice, qualche staccionata più in là, e il profumo di limone provenire dalla brocca di vetro appannato sopra il tavolino in vimini, quello accanto alle poltroncine abbinate, anch'esse orgoglio di tutta la famiglia, finite chissà dove. Mentre il dondolo lamenta la solitudine e la vecchiaia, quando, se solo potesse parlare, darebbe fiato a quell'agonia inflitta dal tempo, atmosferico e non, raccontando tutte le capriole viste e fatte nella stanza delle maschere.
Chissà se anche gli oggetti vecchi e consunti hanno una loro memoria; forse tattile, forse fotografica; e lei rabbrividisce sotto l'occhio severo dell'annaffiatoio arrugginito. Sembra l'uomo di latta alla ricerca di un cuore, pare voglia quello della ragazza, che ora porta le sue mani al petto e si china per spostare il vaso e prendere la chiave. La stringe nel pugno chiuso e nell'aria si mescola l'odore di ferro arrugginito, simile a quello del sangue.
Un po' come accade in quei film, quando lei gira la chiave, varca la soglia e, nella penombra nascosta di quelle mura, trova drappi ovunque, tranne alle finestre chiuse che devono fare il loro lavoro e filtrare luce; un po' come quei risvegli pigri, un po' come quei ritorni inevitabili, quelli che sai di essere sempre lì ad aspettarti, quelli che fanno trovare caffè pronto e colori alla mano e quelli che hanno lasciato adagiare la coltre di polvere, ospitando ragni e formiche indaffarate. Ritorni estivi, con l'odore della polvere calda che prende alla gola. A questo punto, lei, e dico quella di quei film, porta la mano davanti alla bocca, coprendo anche il naso, e sale le scale guardando un raggio di sole filtrare dalle imposte, soffiando sul passamano della ringhiera per vedere la polvere di stelle danzare nel fascio di luce teso come il dito di Dio. Ed è in quella sbarra che lei si ritrova, ogni volta che ritaglia il tempo per sé, ogni volta che sfoglia una o più pagine.
Quando le crea, invece, tutto prende colore intorno, e le verande brillano di un verde vivo e il profumo nell'aria è più fresco.
È nel fascio di luce che danzano le parole, i ricordi, le emozioni, le cose pensate e mai dette. Le vede lungo i giudizi, le vede bere limonata con i piedi scalzi sul dondolo comodo e accogliente; ed è dal piano di sopra che si rende conto di quanto tempo sia passato tra un silenzio e una rinuncia, ed è per questo che, ogni volta che torna, lei, e dico quella come le donne di quei film, spalanca tutto e si affaccia dal piano alto dei miei pensieri; ché al pianoforte ancora non ci sono arrivata a togliere il telo.
Ed eccomi qui, come in quei film, io, casa disabitata e spiraglio da dove escono i pensieri a fare due passi in una giornata autunnale qualsiasi che profuma di verde decomposto, con l'aria tiepida che prende alla gola e i cioccolatini nell'armadietto. Nessun dondolo e nessun profumo di limone; solo il cielo grigio, l'aria calda e la tazza del caffè vuota. Sul fondo un simbolo cinese di qualche tipo che non riesco a decifrare, potrei improvvisare, giusto per lasciar uscire qualcosa a sgranchirsi le gambe, potrebbe essere un drago che tiene la principessa chiusa nella torre, potrebbe essere una principessa che ha rapito il drago nella speranza si trasformi in principe, non tanto azzurro quanto tiepido.
Mi affaccio in me e, senza sporgermi troppo, scosto il telo pesante che ricopre il vecchio pianoforte, quello che non suono da tempo, penso a una parola, la scrivo e la osservo volteggiare, mentre i tasti impolverati si abbassano e si alzano, come il respiro della nonna che faceva il riposino pomeridiano, come la musica di quei morbidi giochi per bambini, uno di quelli profumati, con la cordicella, e magicamente le parole danzano di fronte al mio sguardo bambino, invisibili e anche un po' scomposte.
Ed è così che sto bene, noncurante degli occhi che osservano il vuoto apparente dei miei pensieri che sputano e tossiscono polvere.
E mi sporgo in me, dall'alto di una giornata tiepida e grigia, aggrappata alla ringhiera arrugginita, per guardarmi ancora una volta dentro, intenta a far danzare pensieri che di diventare parole ancora non la intendono.