giovedì 24 aprile 2014

Il cuore di chi legge

Chissà a cosa pensano i libri sugli scaffali, quelli che vengono ammirati da chiunque passi di lì, magari presi in mano, soppesati, accarezzati, guardati e mai sfogliati veramente.
Vite mai vissute.
Chissà come si sentono le parole all'interno di quella copertina colorata dal titolo invitante, ma non abbastanza da essere sussurrata, vista e memorizzata in ogni dettaglio.
Nero su bianco.
Chissà se la copertina rabbrividisce quando lo sguardo l'accarezza o se il cuore batte quando una voce legge dentro.

È una giorno dal respiro forte, fresco e una primavera che non ha voglia degli effetti speciali di un'estate anticipata, anche se il cielo implora. E penso ai libri che non ho letto.
"se dovesse allagarsi casa, non ho finito il libro sul comodino e neanche iniziato un po' di storie che aspettano me".
Non è pessimismo, però mi capita spesso di pensare a questo. Se accadesse qualcosa lascerei molto in sospeso, cose che potrebbero anche arrabbiarsi con me. Io: quella che in libreria guarda titolo e autore, legge la trama e qualche pagina del primo capitolo, giusto per capire se c'è feeling; un po' come un caffè insieme, un aperitivo e una pizza. Poi, se va bene, si passa alla cena, la prossima volta. Sì, io: quella che ha scelto proprio quel libro perché gli sguardi non mentono, e quelle parole avevano una voce ben precisa. Un timbro profondo di quelli che piacciono a me. Scelto, tra decine di volumi. Proprio quello, e poi cosa faccio? Lo lascio in standby per mesi e, quando riprendo le parole negli occhi, divento avida, non mi bastano più. Ma non ora.
In questo periodo non ho la testa al posto giusto per leggere; troppi pensieri che spingono per essere visti, scritti, accarezzati e trattenuti. Consolati.

È un pomeriggio da librone gigante sulle gambe, con tante figure colorate e le lettere in grassetto da seguire con il ditino, sussurrando la storia, soffermandomi sulla parola difficile e riprendendola dall'inizio ogni volta che mi bloccavo, meravigliandomi delle correzioni che arrivavano dall'adulto accanto a me che mi ascoltava. Nonna, mamma e papà avevano probabilmente letto il mio libro mentre stavo dormendo, più divertente del manifesto pubblicitario, almeno il libro non scivolava via sulla strada. Avrei voluto leggere Pinocchio, ma a cinque anni impari che le bugie non si dicono, però, prima di leggere un libro vero meglio una storia illustrata, perché io non volevo Pinocchio della Disney, volevo quello che stava leggendo mia sorella, scritto in toscano, con le parole piccole piccole; non volevo Cuore né Oliver Twist, anche se erano lì nella nostra cameretta ad aspettarmi e sussurravano "coraggio, sbrigati a crescere e vieni a vivere con noi", ma Pinocchio era il mio vaso di nutella sulla mensola, in alto.
Me lo leggeva mia sorella, ogni tanto,  e quando non ne aveva voglia lo divorava con gli occhi, in silenzio, mentre io coloravo e la spronavo a parlarmi. Intanto pensavo che da grande avrei letto tutti i libri e a lei non avrei raccontato niente, e, se per caso li avesse già letti prima di me, avrei inventato un finale diverso, per farle provare la voglia di conoscere quelle avventure, senza immaginarle a casaccio.

Cuore aveva fatto piangere mia sorella, no, non la storia, ma il libro.
A Natale c'era sempre il regalo principale, quello che faceva brillare gli occhi, e poi, c'erano anche piccoli pensieri ricevuti dalle nonne, dalle zie o colleghe della mamma,  alcuni di questi erano cose "utili": dal paio di mutandine, calze, al giochino che si smontava a Santo Stefano e finiva per essere tumulato in un cassetto, senza vita e senza amore.

Da quando mia sorella aveva iniziato la scuola, circa tre anni, a lei, arrivava spesso anche un Libro adatto alla sua età, a me il solito album illustrato da colorare, che però iniziava a non piacermi tanto quanto prima. Quell'anno, dopo aver aperto il pacco forte che conteneva la carrozzina per la mia bambola e un set completo per la pappa, il "Babbo Natale della Stefania", collega di mamma (i regali non arrivavano mai dalle loro mani, finivano sotto l'albero e poi c'era Babbo Natale ufficiale  e Babbo Natale della nonna, della zia ecc.), mi aveva portato un grosso libro su cui esercitare la lettura: Biancaneve e i sette nani. Il primo libro tutto mio; c'erano le figure anche, d'accordo, ma la storia era scritta, e non vedevo l'ora di iniziare a leggere. Ricordo di aver pensato che il Babbo Natale della Stefania fosse stato molto buono, magico come sempre, perché aveva capito che mi ero stufata di colorare. Stringendo questo libro dalla copertina rigida e più largo del mio petto, osservavo il pacchetto nelle mani di mia sorella, era più piccolo del mio, sicuramente un libro, e quando la carta colorata era stata strappata e accartocciata, la faccia di mia sorella aveva cambiato espressione. Aveva le lacrime agli occhi, guardava il mio libro e piangeva in silenzio, delusa. Ricordo vagamente la paura che mi chiedesse di fare cambio, stringendo un po' di più il mio tomo, ero corsa via, al sicuro, rannicchiata per terra accanto all'albero di Natale osservavo la copertina e cercavo d'immaginare il carattere, il cuore e la personalità di quell'avventura.
Oh, certo, conoscevo la storia di Biancaneve e i personaggi in copertina erano proprio loro; i nanetti c'erano tutti, incluso Gongolo con le sue guanciotte rosse, c'era la strega, gobba e vestita di nero, con il naso adunco e gli occhi in fuori, quella che mi terrorizzava solo a ricordarla, e, mentre a pochi passi da me si consumava una tragedia a causa di un libro triste, io sollevavo leggermente la copertina per respirare l'odore di quelle pagine lisce e fresche.

È una serata da plaid sulle gambe e "mamma ora leggi tu che sono stanca".

Ho letto più volte Biancaneve, da cima a fondo, prima di passare a Pinocchio di Collodi. I patti erano quelli: "Quando saprai leggere un po' meglio, inizierai Pinocchio." E m'impegnavo, leggevo le cattiverie della matrigna, mentre la mia testa era sulla mensola della cameretta dove c'era Pinocchio, e chiedevo a mia sorella di dirmi ancora l'inizio:

"C'era una volta...

- Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr'Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura."

Lo conosceva a memoria, lo avevo imparato anche io, ma nessuno poteva raccontarmi la storia di Pinocchio, le nonne, la mamma e chiunque si cimentasse per intrattenermi durante una giornata di pioggia, sceglieva storie mai sentite dagli altri bambini,  credo che la stanchezza di mia mamma o della nonna abbia inventato Un Cappuccetto rosso molto alternativo (avevo paura del taglio della pancia del lupo, quindi gli servivano una tisana talmente amara da fargli sputare tutto. Inclusa la nonnina. Io ero tranquilla e ridevo perché pensavo che un intruglio amaro era quello che meritava quel lupo cattivo. Tipo quando volevano farmi bere il brodo vegetale e pensavo sempre di essere stata punita per qualcosa.)

È un pomeriggio da libro, birra e sigaretta. Un pomeriggio da disegnare volti e paesaggi, da quattro stracci nella valigia e via di corsa tra le pagine di una stazione, tra le pieghe di un'avventura già scritta, tutta da disegnare con i tratti che preferisci.
Intanto fuori c'è il vento e se si allagasse casa dovrei afferrare il libro sul comodino, quello dimenticato. No, quello accantonato perché non è il momento, perché scrivo e disegno un'altra storia, perché se sono stanca mamma non me lo legge, perché se lo apro leggo parole e disegno altro.

È un pomeriggio da tendere l'orecchio e ascoltarli tutti, i libri sugli scaffali; i fantasmi di sconosciuti che si sbrigavano a finire una storia prima che la pioggia allagasse i manoscritti, voci che sussurrano, come una folla numerosa di religiosi che recitano preghiere differenti, tutte rivolte allo stesso Dio, ma con nomi diversi. E guardo la mia libreria dalle copertine colorate, lucide, ruvide, consumate, rigide e morbide. Emozioni tascabili e pesanti tomi dai facili costumi. I libri invecchiano ma, se li sfogli, rivedi la pelle liscia delle parole, gli occhi vispi dell'avventura acerba e la voglia di sorprenderti ancora. I libri sono eterni e, quando la casa è avvolta dal silenzio, parlano tra loro scambiandosi la memoria tattile, ricordando ogni brivido dato e ogni lacrima scivolata.
I libri hanno un cuore. So che dovrebbe essere quello di chi lo ha scritto, ma non per me. Ogni libro letto ha il mio cuore, ogni storia ha i miei occhi e il mio dipinto. I libri riposano e sbadigliano, mentre fuori soffia il vento e porta a spasso petali e parole di bambina, sussurrate e accarezzate con il citino, pronte a salpare per una nuova avventura sul mare delle pagine ingiallite. Sfilano davanti ai miei occhi stanchi e torno a essere quella bambina dallo sguardo gioioso.

Un anno dopo Biancaneve.
Il mio secondo libro. Perché è vero che la prima volta non si scorda più, ma la seconda è più bella.




martedì 22 aprile 2014

In viaggio da una vita

Non saprei da quanti silenzi sia composto un pensiero. Forse dieci, cento, uno o niente. E, mentre le persone parlano, io penso. Penso ai fatti miei, penso a ricordi o eventi immaginari; penso a quello che è azzardando un "che sarà?", di passaggio, mentre le persone sono convinte di parlare con me, mentre diventano rumori di fondo, mentre tutto diventa relativo, soprattutto, il silenzio.
Un rifugio per le mie evasioni.
Con un'espressione poco convincente, eccomi qui: l'eterna assente, in fuga dalle parole, nel mio angolo arredato di pensieri privi di voce che ogni tanto mi strappano un sorriso di quelli che speri ti abbiano appena detto qualcosa di divertente, così non passi per pazza.
Penso e sorrido, penso e aggrotto la fronte, penso e guardo la gente muta che muove le labbra.
Non ci sono persone, è la tv che parla, e io penso che solo nei film il conduttore di un programma sospenda la trasmissione per rivolgersi proprio a te. A te che stai pensando, e non può tacciarti come persona "distratta" solo perché non t'interessa sapere chi sia figlio di chi o cosa comprenda l'eredità di figli legittimi e non, perché in una scatola ci stanno giusto piccole marionette, mica persone in carne e ossa.
È solo la tv, sono libera di aggrottare la fronte e pensare, con il rumore di fondo degli applausi, quanti applausi entrano in un pensiero? Dieci, cento, uno o niente; come la volta in cui, dovendo andare via un intero weekend per motivi di lavoro con il collega che mi stava facendo una corte serrata, decisi di andare a scoprire le sue carte aiutando la sorte (e un po' anche lui, che parlava troppo senza agire).
Rumore di fondo, è solo pubblicità.
Quanti anni sono passati? Tanti, troppi, ero via da casa, facevo il lavoro più bello del mondo, quello che coltivavo fin da piccola. Toccava a me chiamare l'albergo a Torino, lui era in diretta e non aveva tempo. "Prendiamo una camera doppia, abbiamo un budget da rispettare, rimborsano fio a un certo punto", mi disse, era ora di vedere le sue carte. Gli applausi nella mia testa, quel giorno, mi avevano strappato un sorriso fiero, senza sapere che, in un futuro vicino, quel sorriso sarebbe stato gettato nel tombino dei coriandoli di Pierrot.
Spengo la tv, metto un po' di musica, fa meno rumore della mosca che sta ronzando attaccata al vetro della finestra.
Chissà a cosa pensano le mosche quando si disperano su un vetro, chissà se si lamenta del rumore dei tasti, digito piano. I pensieri non devono essere disturbati e le mosche non pensano, forse, ma con me non regge questa scusa, io sono quella che non buttava via quel sassolino perché si sarebbe sentito abbandonato, dopo tutti questi anni, per non parlare del tappo della bottiglia di spumante di quella sera, è sempre lì, nel cassetto delle posate e non serve, non pensa e non lo utilizzo, ma non posso buttarlo via, sarebbe come giustiziarlo, chissà che tristezza.
Quanti ricordi si possono mettere in una pausa caffè? Se nessuno ti parla, dieci, cento, uno o forse niente, tutti insieme. Come una corsa in autostrada, come la visione periferica che scorre, che ti fa ricordare volti, colori e vestiti che avevi dimenticato. Frasi dei tuoi dieci anni, baci dei diciotto, pelle dei venticinque e odori di una vita. In viaggio con te stessa, da sempre, zingara di momenti che porti in giostra senza scendere, nemmeno se lo volessi. Altro giro altro regalo, la mosca tace e la musica viaggia con me.
Mettiti nelle mie mani.
E tu pensi che siano troppo piccole quelle mani, per contenerti tutta, ma ho sempre fatto confusione tra mani e cuore, forse perché tamburello spesso con le dita e faccio rumore infastidendo la stanza vuota che aveva solo voglia di pensare senza mosche, senza applausi e senza occhi che si domandano se li stai ascoltando.
Allora cambio la domanda, senza aiuto del pubblico, senza raddoppio né altro.
Quanti pensieri riescono a entrare in un silenzio?
Questa la so.
Tutta la tua vita.
Una lunga memoria intera.