giovedì 26 febbraio 2015

Il cielo in un'ortensia


"Per anni ho visto le fotografie animarsi.
Sì, come quelle di Harry Potter, e profumavano anche.
Ora tacciono, forse dormono."

In 140 caratteri una vita intera, un po' come quando muori e ti passano i momenti davanti, così dicono.
Sfoglio album, guardo cose, ascolto risate, sento profumi, assaporo merende e, ogni volta, muoio un po', per poi rinascere.
Vecchie fotografie dai colori improbabili, pellicole rovinate, incollate al foglio ingiallito del presente. Chiudo gli occhi e sono lì, in quel piazzale arso dal sole che neanche in un vecchio film di Leone c'era quel caldo e quella polvere.

Ma cosa ne sa, chi percorre oggi la scalinata di cemento che porta all'ingresso della casa dei miei genitori, com'era un tempo quel viottolo di terra e sassi; erba ai bordi e, poco più in là, i fiori che la nonna aveva piantato, curati dalla mamma e da chi aveva amore da offrire.
Un viottolo di terra e sassi che se cadevi non ti sbucciavi le ginocchia, ti bucavi la carne e prendevi il resto.

Volto pagina, chiudo gli occhi e sono lì, a respirare il salmastro di quell'acqua che non riuscivo a interpretare, perché così diversa dal mare, ma i fiori no, i fiori erano tutt'intorno e io ero abituata ai fiori, loro un po' meno a me: sarebbero scappati via, avessero avuto le gambe e una testa, invece restavano lì, a farsi annusare, accarezzare, recidere e mutilare per diventare unghia laccata o decorazione per i capelli, e le minacce della nonna e della mamma servivano solo fino al gioco successivo.

Le ortensie della nonna erano le uniche che si salvavano, tranne le foglie, quelle erano fette di carne o di prosciutto, quando giocavo a "vendere". I soldi erano foglietti di carta. Da papà pretendevo il pagamento in moneta sonante, andava via con una pietra, Parmigiano Reggiano, e il costo era sempre lo stesso: "500 Lire, signore, sentirà che buono questo formaggio/la carne/il pesce/le olive", qualsiasi cosa comprasse, lo alleggerivo di 500 Lire, a volte mi diceva di dargliene meno e ci scappavano 200 Lire, ma quel che contava, per me,  erano i soldi veri. E correvo a metterli nella scatola, perché il salvadanaio era pieno di monetine imprigionate, e io volevo vederli i miei averi, quelli importanti.
C'era anche qualche banconota allungata dai nonni paterni, la nonna materna ci viziava rigorosamente alle feste comandate, in realtà, ci viziava molto di più, con il suo amore, con i cibi e le coccole, dai nonni paterni si andava una volta a settimana, loro dimostravano l'affetto così, allungando ogni tanto una banconota da 1000 Lire o, se una delle due aveva avuto la febbre, 5000.
Ho imparato a camminare scalza grazie a loro e alla raccomandazione della mamma "Silvana, no scalza ché ti viene la febbre" e io pensavo alle 5000 Lire dei nonni, nascondevo le ciabatte e tenevo i piedi sul pavimento freddo, a volte funzionava, non sempre.
Le fotografie sono come le ciliegie, una storia tira l'altra, e vola il tempo, e dove sono non so.
Mi cerco dietro quel broncio e non sono più io,

L'ortensia azzurra era la mia pianta preferita, aveva il colore del cielo, quello delle belle giornate di sole. L'accarezzavo e non osavo strapparla. Erano un miracolo le ortensie, un fiore composto da decine e decine di piccoli fiori "nonna, quando le poti me ne dai una?" erano le regine del giardino, le uniche a essere graziate dalla mia infanzia. Inodori, ma il colore prendeva alla gola, una pianta azzurra e una rosa. Le trovo lì, a costeggiare il viottolo, mentre mi guardo per trovare una parte di me, oggi come ieri, sono io, la stessa che si spazientiva a posare per far finire il rullino, con la voglia di tornare a giocare o a curiosare cosa stesse facendo papà sulla strada. Io, con le mie treccine, a smentire la mamma quando era arrabbiata e mi ripuliva le ginocchia o i vestiti imbrattati di terra, accusandomi di essere un maschiaccio, io, che posavo con il broncio mentre una lucertola correva per il piazzale, impiccata a un lungo filo d'erba, il mio sguardo colpevole.

Ricordo quasi tutti i momenti che sfoglio, quelli che non so me li hanno raccontati, allora si muovono anche loro, si muove la bambina sulla sedia di plastica, sono io a poco più di sei mesi, io che facevo sporgere così tanto le labbra che un giorno stava soffocando perché il labbro superiore aveva fatto da ventosa sulle narici. Mi vedo sgambettare e mi cerco anche lì, ma non mi trovo, dietro quegli occhi così liberi da pensieri e consapevolezze.

Mentre mi ripeto che sono solo vecchie fotografie, ricordi come altri, come la pizza del mese scorso, come lo scambio di sguardi al semaforo e quel mezzo sorriso accennato prima di ripartire. Alle spalle il clacson che incitava Mister Muscolo a notare il verde. Tutto ciò che passa è un ricordo, io che vado ad aprire il portone, sì, dieci minuti fa sono un ricordo che tra vent'anni avrò dimenticato. Come le cose che passano troppo velocemente e che non riesci a carpire.

La mano sulle mie gote accaldate, la pelle leggermente appiccicosa e la consistenza dei lunghi capelli raccolti.

Io che volevo la fascetta blu, nonostante il vestitino con le nuvolette color "cedrata", come lo chiamavo io, a nulla erano valsi gli inviti al ragionamento, almeno la fascetta doveva essere blu. Sulle piccole cose mamma me la dava spesso vinta senza portarmi a fare capricci sterili, per poi poter esercitare più rigidità di fronte alle cose davvero importanti, io sapevo quando era il caso di insistere e quando di smettere.
Ricordi, come i papaveri lungo il sentiero che portava al prato delle noccioline.
Papaveri così delicati, così sottili, io che mi ostinavo a volerne un mazzo da portare a casa ed io che li vedevo accasciarsi sullo stelo, senza poter fare nulla.

Girasoli, che volevo sorprendere a girare la testa, ma erano più furbi di me, loro. Girasoli ai bordi dell'autostrada, quando viaggiavo con mamma e papà. Sedute dietro, mia sorella e io, a cantare canzoni, a chiedere quanto mancasse all'arrivo, mentre osservavo quelle distese di lunghi fiori color giallo oro, restando immobile come una statua: se loro non si fidavano di me, non vedo perché avrei dovuto farlo io.
Girasoli, così poco socievoli da sembrare quei bambini che quando parlavano con gli altri, lo facevano solo avvicinandosi all'orecchio, mettendo una mano a conchetta e guardandoti negli occhi. Come se quel segreto fosse una questione di vita o di morte, come se tu fossi l'arma di sterminio di massa. I girasoli erano così: asociali; ecco perché vivevano in un villaggio tutto loro. e non li avrei voluti neanche per farmi le unghie gialle, erano migliori i gerani della nonna: quelli bianchi, rosa, rossi e viola. Loro sì che sapevano come si gioca.
Ricordi sfogliati, ricordi distorti, ricordi monocromatici.
E, in una boccaccia, il sorriso di chi in quel momento aveva appena vinto una piccola battaglia:
"Lascialo stare un attimo, ché fa caldo ed è stanco"
"Dai, Ro', corri c'è papà"
mentre mia madre sorrideva, orgogliosa, mentre posavo per immortalare quella piccola vittoria in braccio a mio padre che era sporco di cemento e sabbia, mentre la primavera stava preparando le unghie per le mie manine.
Occhi al confronto, un gioco mai passato di moda, ma non mi ritrovo e la gioia è diversa, la gioia non profuma più di ortensie colorate di cielo.
La gioia è una boccaccia in braccio a tuo padre, mentre mamma ha fretta di finire quel rullino.
E, se ai girasoli fosse venuto il torcicollo per voltarsi a spiare, non mi sarei certo scomposta. Tra queste pagine, oggi, non se ne vede l'ombra.



lunedì 16 febbraio 2015

La danza delle ombre

È una sera dalle tinte ingannevoli, una di quelle che si affidano solo agli occhi e non alla pelle.
È una sera che si mostra tenue, colorata quanto basta, apparentemente sobria, se non fosse per quel pugno alla bocca dello stomaco che ti fa sorridere, ma solo per un attimo.
È una sera che sa cosa vuole e se lo prende, nonostante te e la tua volontà di cartapesta.
Sera argentina, profumata e brillante.
Diglielo quanto è bella, dille che ti fa impazzire.
È sera, non aspetta altro, guardala, bevila, leggila sotto i vestiti.
È una sera da "Quanto costi in voglie, quanto mostri in ricordi?" e poi si adagia su di te.
Sera coperta, pensieri nudi sotto le ombre.
Crepuscolo, sera in fasce, diva in bianco e nero, sera da peccato; scrivile i tuoi limiti, disegna le tue certezze e lasciagliele demolire.
Sera da pagina bianca, sera dal sapore di biro e odore di smalto.
Guardala ora, fermati un sospiro prima e diglielo ancora che ti fa impazzire, a questa sera così pronta e così lasciva.
Sera da sorrisi scaltri, sera da osare, sera senza regole, sera di silenzi e canzoni; pensate e danzate.
Ombre che si muovono, sinuose e morbide, addosso, ora, e la tua pelle si colora, mentre il viso s'illumina di buio.
Sera da accendere, se solo vuoi lasciarti impazzire.

mercoledì 4 febbraio 2015

Parto da zenzero e mi scappa da scrivere


Perché mi piace il suono, perché amo il suo sapore deciso e il profumo sfacciato.
Zenzero
e il sentirsi invincibile con quella conferma spolverizzata, lo respiro, mentre penso sorridendo a mia nonna e ai suoi pizzichi segreti, alla mamma e alle sue correzioni, le ricette sottolineate da entrambe e le annotazioni in calce, come fossero pozioni, come fosse magia.
Zenzero
e non solo, perché c'è un'avventura dietro ogni spezia, un segreto, quella diversità che non hai comunicato perché gelosa della tua fantasia, del tuo palato, e non vuoi lasciarlo esplorare a estranei. Il bacio è una cosa intima, più dell'atto completo, nossignore che non ho mai parlato della spolverata di cannella nel maiale in agrodolce, quella era la mia bocca. Morbida e dolce, e io ho dato la ricetta, non il mio sesto senso.
Zenzero
noce moscata e maggiorana, la stretta calligrafia della nonna, acuminata e precisa.
"Colare poco la pasta così forma la cremina"
E ogni boccone si scioglieva in bocca come fosse cioccolato.

Se non si fosse capito, sono un'ottima forchetta, nel senso che amo mangiare, oltre che una discreta cuoca. Cucinare mi rilassa, non canto sotto la doccia ma lo faccio in cucina, ascoltando musica e mimando un'esibizione sul palco impugnando un carciofo.
Zenzero
Ero piccola quando ho imparato gli onori della tavola, mamma portava l'arrosto in tavola e io aspettavo che mettesse la pentola o la padella vuota sui fornelli, con il mio pezzetto di pane andavo a fare la scarpetta nel tegame, prima ancora di assaggiare la pietanza. Dovevo assaggiare quel mix di alloro, salvia e burro. Buono, ci aveva messo anche il vino bianco e lo sentivo leggermente aspro sul palato, allora guardavo quel pezzetto di pane incrostato del fondo di cottura, quello più bruciacchiato e saporito. Una volta data la mia approvazione alla pentola lucida tornavo a tavola e mangiavo insieme a tutti gli altri che mi guardavano ridendo.
Zenzero
chiodi di garofano e bacche di ginepro, ché "se nella cipolla del brodo metti un chiodo di garofano e poco vino rosso corposo diventa più buono"
Sono sempre stata in cucina, disegnavo e spiavo la nonna o la mamma, chiedevo, m'informavo e intanto coloravo castagne, funghi e alberi. sembravo uno di quei cagnolini che appena sente il rumore delle stoviglie corre al richiamo, e non tornavo al mio lavoro fino a quando mamma non cedeva dandomi un pezzetto di formaggio, prosciutto o carota. La nonna era più generosa, lei mi preparava una fetta di pane con il sugo delle polpette. Bollente. E mi chiedeva un parere. Con il palato ustionato mugolavo il mio piacere, come fosse la moina di un'amante coinvolta, e il sorriso negli occhi della nonna era il premio del giorno.
Zenzero
curry e zafferano, mentre canto e adopero tutti i sensi, perché cucinare è come fare l'amore e i sensi coinvolti sono tutti allertati e indispensabili.
Serve la vista, per controllare gli ingredienti e la loro freschezza, il grado di cottura, che non ci sia acqua in mezzo al sugo o sul fondo dello spezzatino, che ci sia il giusto velo di olio sopra, non troppo né troppo poco, l'accostamento dei colori e la consistenza visiva.
Tatto. I fornelli sono permalosi, e ne serve parecchio in cucina, soprattutto nei preparativi, nella pulizia del pesce, delle verdure o nel disossare coniglio, pollo e affini. Nell'impastare le polpette, io non uso mixer o cucchiai, nonna mi ha insegnato a mescolare gli ingredienti rigorosamente con le mani e capire da come restano imbrattate se serve pangrattato per asciugare o altro pane bagnato nel latte per ammorbidire. Per la pasta "un uovo ogni etto di farina, se aggiungi l'acqua viene molla" la nonna era della vecchia scuola, la pasta fresca deve essere soda e devi faticare a lavorarla.
E non posso dimenticare i miei primi esperimenti, ma quale pongo, io giocavo con un pezzo di impasto di tagliatelle o del pane, pretendevo anche la cottura, ma quello era un altro discorso, non sempre era concesso, dipendeva da quanti giri aveva fatto quel malloppone e quante cadute per terra.
Udito.  In cucina lo uso per la musica e per ascoltare il brusio della cottura.
Il sussurro degli spettri dell'infanzia, quando la domenica ero a letto e sentivo l'allegro spadellare provenire dalla cucina e mi sentivo più felice, ascoltando la nonna duettare con Massimo Ranieri o mamma  che rideva con papà. Ascolto il rumore del soffritto che fa un brasato quando inizia ad avere poco fondo di cottura, e ti richiama, perché le pietanze vogliono considerazione. Il brontolio del minestrone o le bolle della polenta, il sibilare del latte dimenticato sul fuoco e il suo straripare dispettoso. Se ascolto bene, perfino la moca mi dice quando il caffè ha finito il suo percorso, senza bisogno di sollevare il coperchio, sai che c'è tutto, e lo sai perché ha cambiato il rumore.
Gusto. E questo è forse il senso che conoscono tutti, legato alla cucina. Il gusto impregnato in quel pezzetto di pane. È facile dire purea di patate, ma isolare i sapori è sempre stato il gioco che facevo "Mamma, ma è diverso" e lei sorrideva "ho dimenticato di comprare la noce moscata, per una volta possiamo mangiarlo così, giusto?" e la risposta era affermativa, ovviamente, ma intanto capivo la differenza e l'importanza della grattugiata di una spezia che mamma ha sempre avuto in casa. Mai in polvere, sempre le noci intere. Gusto originale e deciso.
Olfatto. 
Come la pelle del tuo amante, l'odore che riconosceresti tra tutti.
Ogni sugo ha il suo profumo. Dipende dalle spezie che si usano, entrare in casa e indovinare il menù è una grande soddisfazione che si dà a chi ama cucinare. Ancora oggi, quando vado dalla mamma riconosco le sue polpette, il suo sugo e le sue lasagne. Senza sbirciare prima.
L'olfatto che aiuta a non bruciare anche le pentole, l'olfatto che stimola la voglia di mangiare, l'olfatto che ti segnala se qualcosa stona. L'olfatto, come istinto animale, cibo buono e cibo non buono.
"Nonna, perché hai cucinato il pesce e non puzza?"
Nonna che riusciva a farmi piacere anche i broccoli, nonna e le sue perle "Non esistono ingredienti che puzzano, esistono persone che non sanno cucinare." e quando andavo a casa di alcune mie amiche pensavo che le loro mamme fossero le più impedite del mondo ("Elena, tua mamma deve aver sbagliato e ha messo lo zucchero al posto del sale" e il calcio di mia sorella sotto al tavolo. Le scaloppine a casa mia si mangiavano al vino bianco o ai funghi, al marsala non andavano bene per i bambini e quelle, poi, non avevano un buon odore).
Zenzero
e tutti i modi di impiegare ingredienti, dosando al grammo o a occhio, a manciate o a tazze.
Zenzero
e quel piccolo assaggio dal mestolo di legno.
"Forse manca un po' di peperoncino".
E il sesto senso, in cucina, è la fantasia.
Proprio come sotto le lenzuola.