"Per anni ho visto le fotografie animarsi.
Sì, come quelle di Harry Potter, e profumavano anche.
Ora tacciono, forse dormono."
In 140 caratteri una vita intera, un po' come quando muori e ti passano i momenti davanti, così dicono.
Sfoglio album, guardo cose, ascolto risate, sento profumi, assaporo merende e, ogni volta, muoio un po', per poi rinascere.
Vecchie fotografie dai colori improbabili, pellicole rovinate, incollate al foglio ingiallito del presente. Chiudo gli occhi e sono lì, in quel piazzale arso dal sole che neanche in un vecchio film di Leone c'era quel caldo e quella polvere.
Ma cosa ne sa, chi percorre oggi la scalinata di cemento che porta all'ingresso della casa dei miei genitori, com'era un tempo quel viottolo di terra e sassi; erba ai bordi e, poco più in là, i fiori che la nonna aveva piantato, curati dalla mamma e da chi aveva amore da offrire.
Un viottolo di terra e sassi che se cadevi non ti sbucciavi le ginocchia, ti bucavi la carne e prendevi il resto.
Volto pagina, chiudo gli occhi e sono lì, a respirare il salmastro di quell'acqua che non riuscivo a interpretare, perché così diversa dal mare, ma i fiori no, i fiori erano tutt'intorno e io ero abituata ai fiori, loro un po' meno a me: sarebbero scappati via, avessero avuto le gambe e una testa, invece restavano lì, a farsi annusare, accarezzare, recidere e mutilare per diventare unghia laccata o decorazione per i capelli, e le minacce della nonna e della mamma servivano solo fino al gioco successivo.
Le ortensie della nonna erano le uniche che si salvavano, tranne le foglie, quelle erano fette di carne o di prosciutto, quando giocavo a "vendere". I soldi erano foglietti di carta. Da papà pretendevo il pagamento in moneta sonante, andava via con una pietra, Parmigiano Reggiano, e il costo era sempre lo stesso: "500 Lire, signore, sentirà che buono questo formaggio/la carne/il pesce/le olive", qualsiasi cosa comprasse, lo alleggerivo di 500 Lire, a volte mi diceva di dargliene meno e ci scappavano 200 Lire, ma quel che contava, per me, erano i soldi veri. E correvo a metterli nella scatola, perché il salvadanaio era pieno di monetine imprigionate, e io volevo vederli i miei averi, quelli importanti.
C'era anche qualche banconota allungata dai nonni paterni, la nonna materna ci viziava rigorosamente alle feste comandate, in realtà, ci viziava molto di più, con il suo amore, con i cibi e le coccole, dai nonni paterni si andava una volta a settimana, loro dimostravano l'affetto così, allungando ogni tanto una banconota da 1000 Lire o, se una delle due aveva avuto la febbre, 5000.
Ho imparato a camminare scalza grazie a loro e alla raccomandazione della mamma "Silvana, no scalza ché ti viene la febbre" e io pensavo alle 5000 Lire dei nonni, nascondevo le ciabatte e tenevo i piedi sul pavimento freddo, a volte funzionava, non sempre.
Le fotografie sono come le ciliegie, una storia tira l'altra, e vola il tempo, e dove sono non so.
Mi cerco dietro quel broncio e non sono più io,
L'ortensia azzurra era la mia pianta preferita, aveva il colore del cielo, quello delle belle giornate di sole. L'accarezzavo e non osavo strapparla. Erano un miracolo le ortensie, un fiore composto da decine e decine di piccoli fiori "nonna, quando le poti me ne dai una?" erano le regine del giardino, le uniche a essere graziate dalla mia infanzia. Inodori, ma il colore prendeva alla gola, una pianta azzurra e una rosa. Le trovo lì, a costeggiare il viottolo, mentre mi guardo per trovare una parte di me, oggi come ieri, sono io, la stessa che si spazientiva a posare per far finire il rullino, con la voglia di tornare a giocare o a curiosare cosa stesse facendo papà sulla strada. Io, con le mie treccine, a smentire la mamma quando era arrabbiata e mi ripuliva le ginocchia o i vestiti imbrattati di terra, accusandomi di essere un maschiaccio, io, che posavo con il broncio mentre una lucertola correva per il piazzale, impiccata a un lungo filo d'erba, il mio sguardo colpevole.
Ricordo quasi tutti i momenti che sfoglio, quelli che non so me li hanno raccontati, allora si muovono anche loro, si muove la bambina sulla sedia di plastica, sono io a poco più di sei mesi, io che facevo sporgere così tanto le labbra che un giorno stava soffocando perché il labbro superiore aveva fatto da ventosa sulle narici. Mi vedo sgambettare e mi cerco anche lì, ma non mi trovo, dietro quegli occhi così liberi da pensieri e consapevolezze.
Mentre mi ripeto che sono solo vecchie fotografie, ricordi come altri, come la pizza del mese scorso, come lo scambio di sguardi al semaforo e quel mezzo sorriso accennato prima di ripartire. Alle spalle il clacson che incitava Mister Muscolo a notare il verde. Tutto ciò che passa è un ricordo, io che vado ad aprire il portone, sì, dieci minuti fa sono un ricordo che tra vent'anni avrò dimenticato. Come le cose che passano troppo velocemente e che non riesci a carpire.
La mano sulle mie gote accaldate, la pelle leggermente appiccicosa e la consistenza dei lunghi capelli raccolti.
Io che volevo la fascetta blu, nonostante il vestitino con le nuvolette color "cedrata", come lo chiamavo io, a nulla erano valsi gli inviti al ragionamento, almeno la fascetta doveva essere blu. Sulle piccole cose mamma me la dava spesso vinta senza portarmi a fare capricci sterili, per poi poter esercitare più rigidità di fronte alle cose davvero importanti, io sapevo quando era il caso di insistere e quando di smettere.
Ricordi, come i papaveri lungo il sentiero che portava al prato delle noccioline.
Papaveri così delicati, così sottili, io che mi ostinavo a volerne un mazzo da portare a casa ed io che li vedevo accasciarsi sullo stelo, senza poter fare nulla.
Girasoli, che volevo sorprendere a girare la testa, ma erano più furbi di me, loro. Girasoli ai bordi dell'autostrada, quando viaggiavo con mamma e papà. Sedute dietro, mia sorella e io, a cantare canzoni, a chiedere quanto mancasse all'arrivo, mentre osservavo quelle distese di lunghi fiori color giallo oro, restando immobile come una statua: se loro non si fidavano di me, non vedo perché avrei dovuto farlo io.
Girasoli, così poco socievoli da sembrare quei bambini che quando parlavano con gli altri, lo facevano solo avvicinandosi all'orecchio, mettendo una mano a conchetta e guardandoti negli occhi. Come se quel segreto fosse una questione di vita o di morte, come se tu fossi l'arma di sterminio di massa. I girasoli erano così: asociali; ecco perché vivevano in un villaggio tutto loro. e non li avrei voluti neanche per farmi le unghie gialle, erano migliori i gerani della nonna: quelli bianchi, rosa, rossi e viola. Loro sì che sapevano come si gioca.
Ricordi sfogliati, ricordi distorti, ricordi monocromatici.
E, in una boccaccia, il sorriso di chi in quel momento aveva appena vinto una piccola battaglia:
"Lascialo stare un attimo, ché fa caldo ed è stanco"
"Dai, Ro', corri c'è papà"
mentre mia madre sorrideva, orgogliosa, mentre posavo per immortalare quella piccola vittoria in braccio a mio padre che era sporco di cemento e sabbia, mentre la primavera stava preparando le unghie per le mie manine.
Occhi al confronto, un gioco mai passato di moda, ma non mi ritrovo e la gioia è diversa, la gioia non profuma più di ortensie colorate di cielo.
La gioia è una boccaccia in braccio a tuo padre, mentre mamma ha fretta di finire quel rullino.
E, se ai girasoli fosse venuto il torcicollo per voltarsi a spiare, non mi sarei certo scomposta. Tra queste pagine, oggi, non se ne vede l'ombra.