martedì 22 dicembre 2015

Profumo di brodo





C'era profumo di brodo, nella cucina della nonna, quando imparavo quelle poche strofe. Eravamo nel periodo Natalizio e dall'ingresso, che aveva le misure di un salottino, filtravano le luci dell'albero.
"Non ho vo… non ho voglia di tuffarmi in un focola… no, ufff. Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade… Non ho vo…"
E il brodo bolliva, nonna ascoltava, di spalle, impegnata a lavorare sul lavandino di marmo, in silenzio, quasi che sembrava non sentisse le mie indecisioni, poi arrivava la parola mancante e il suo imperativo "Ricomincia, Non ho voglia?"
"Non ho voglia nonna", e ridevo, lei un po' meno.
Il profumo di brodo sempre più intenso, le mani di nonna arrossate dall'acqua fredda che lavavano il radicchio rosso, l'insalata preferita dal più giovane dei miei zii.
"Non ho voglia di tuffarmi…"
La condensa sui vetri e il freddo esterno che spingeva per entrare ad ascoltare la mia vocina, il mio sguardo perso là fuori, tra gli altri balconi, alla ricerca delle luci natalizie. Mi piaceva guardare gli alberi addobbati nelle altre abitazioni.
Ne ricordo uno così grande che sembrava quello nelle piazze dei film inglesi. Se poi fossero stati americani o tedeschi lo ignoravo, qualsiasi cosa non fosse italiana, per me, era inglese e, quando ero ancora più piccola, anche i dialetti differenti dal mio erano inglese, ma questa è una cosa comune a molti bambini ed è anche un'altra storia.
"Qui non si sente altro che il caldo e le quattro… no, non ho voglia di tuffarmi…"
Quando ci aveva dato il compito di studiare la poesia, la maestra aveva detto qualcosa a proposito della guerra e di un signore che era tornato per passare il Natale a casa. Nel periodo delle elementari bastava niente per aver paura. I film con gli indiani e quelli di guerra erano qualcosa che guardavo distrattamente, con molta diffidenza e timore. Non capivo molto, l'unico nonno che ne parlava ogni tanto era quello paterno, perché era abbastanza vecchio da averla vissuta un po' di più, la nonna era troppo piccola per ricordare e il pensiero di un soldato che guarda le fiamme fumando, solo, il giorno di Natale, mi dava un'infinita tristezza, e paura. Ricordo di aver pensato che nessuno dovrebbe passare il Natale da solo, ricordo che avevo guardato nonna, il fiocco del grembiule sulle sue generose e rassicuranti curve, le stesse che mi avevano cullato per anni, il mio punto fermo e morbido. Avremmo passato Natale a casa della mamma, c'erano anche gli zii paterni e subito avevo chiesto di poterlo fare con la nonna, "giù". Rispetto mamma e papà, che vivevano in aperta campagna, dove abitano tutt'oggi, la casa di nonna, che era in centro paese era "giù", e giù era casa mia, per me. Mamma mi rassicurò dicendo che anche la nonna e gli zii si sarebbero uniti alla festa. Se così non fosse stato anche la nonna sarebbe rimasta sola a pensare "Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo…" e il nodo alla gola premeva, gli occhi pizzicavano. Ricordo di essermi alzata ad abbracciarla da dietro, lei che m'incitava a proseguire con la poesia, io che annusavo il profumo di brodo e quello di sapone che emanava lei.
Incredibile come si dimentichino le cose e come s'imprimano i sentimenti.
In due passi ero arrivata alla porta finestra, là fuori non c'era la guerra, era Natale. Ricordo di aver pensato anche che a Natale nessuno avrebbe dovuto fare la guerra, infatti era così. Non c'era guerra perché era Natale.
"come una cosa dimenticata…"
Mentre il mio ditino tracciava il percorso di una goccia d'acqua. Là fuori era buio e faceva freddo. Là fuori c'erano le luci di Natale di vite estranee che alla luce del giorno mi sorridevano e conoscevano il mio nome, ma la sera dimenticavo i loro volti e i loro nomi. La Signora Elsa non si chiamava più così. La signora Elsa, al buio, era Natale arancione, a causa di una lunga catena di luci di quel colore, che filtrava da grandi palle arancioni grosse come arance succose. La Ornella era Lanterna. Aveva disegnato i vetri e quello del soggiorno mostrava una bellissima lanterna. Era buio, non vedevo i suoi disegni, ma sapevo che erano tutti lì, sulle finestre di fronte al palazzo della nonna. Avevo chiesto allo zio di disegnare anche sui nostri vetri, lui era molto bravo, la nonna aveva immediatamente fatto cenno di no con la testa, fingendo di nulla quando mi voltai a guardarla,  non lo chiesi più. Ero abbastanza sveglia da aver capito che alla nonna non piacevano i disegni sui vetri, come non amava la farina sull'albero. Nonna doveva essere una purista del Natale.
Intanto ero riuscita a dirla di seguito, per la prima volta. Sapevo che se l'avessi detta bene ancora due volte avrei potuto smettere e giocare un po', magari con lo zio, aspettando l'ora di cena. Poi avrei dovuto dirla a lui, dopo mangiato, giusto per testare la mia memoria.
Mentre il dito tracciava i contorni di una candela, il rumore delle chiavi nella toppa e la voce dello zio.
La gioia nel cuore e la consapevolezza che mancava ancora una volta per poter mettere via il quaderno.
Una sera come altre, a un passo dalle vacanze. L'indomani avrei dovuto recitare la poesia a Suor Gisella, la mia giovane e cattivissima maestra. Era tornata dall'ospedale e ancora piangevo per la supplente, una ragazza che mi aveva azzittito e sussurrato di non dirlo a nessuno e non dirlo più, quando, con gli occhi lucidi le dissi "tanto sta male sempre, ci vediamo presto, vero?" Suor Gisella era titolare di una cattedra che non le apparteneva. Era molto giovane, lei e io avevamo qualcosa in comune, quel primo giorno di scuola, Per entrambe era la prima volta, solo che io ero in vantaggio. Sapevo leggere e scrivere, lei non aveva ancora mai insegnato. Non mi aveva perdonato questo.

"Ora metti il quaderno in cartella, dopo la ripeti due volte ancora, è tornata Suor Gisella, e sai che se solitamente vali dieci, con lei devi valere dieci e lode." A casa sapevano tutti della mia disavventura con Suor Gisella, solo che nessuno mi dava ragione, anzi, avevo imparato a non lamentarmi più di tanto, giusto per non prendere un castigo extra. La mia è stata un'infanzia sana, mamma e papà vigilavano, ma gli adulti non dovevano essere contraddetti da una bambina.
Quella sera avevo chiesto alla nonna di potermi sedere per terra nell'ingresso a parlare un po' con il suo albero, non aveva la stessa voce di quello a casa dei miei, ma anche questo si faceva sentire forte e chiaro. Proprio qui.
Dalla nonna non c'erano i termosifoni, c'era una "moderna" stufa a gas che faceva un rumore rassicurante. La fiamma  estesa su tre file orizzontali e il pavimento tiepido proprio nel cantuccio di fronte all'albero. Aspettavo che lo zio mi facesse spaventare, aspettavo che mi raccontasse la storia del Gigante egoista "Qui non si sente altro che il caldo buono."
E l'ora di cena mi aveva trovata così: a pancia in giù e gambe per aria.

"Così non ti sente nessuno, a chi borbotti, si può sapere?"

Ma quella mattina avevo il nodo in gola. Nessuno doveva restare solo a Natale, ma non avevo voglia di far vedere a tutta la classe che gli occhi pizzicavano. La voce tremava e Suor Gisella lo sentiva. Ci fosse stata la signorina Adriana mi avrebbe abbracciata, e forse sarei scoppiata a piangere. Tanto si sarebbe ammalata di nuovo e avrei rivisto presto la mia supplente. Mi dissi ancora che non avrei dovuto avere paura della guerra. A Natale non poteva scoppiare, mi schiarii la voce e ricominciai. Forte e chiara.

"Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare"
                                            (Natale, G. Ungaretti)

E sul suono dell'ultima parola guardai la mia maestra dritto negli occhi. Ero già in vacanza.





mercoledì 9 dicembre 2015

Ti ricordi

Il tempo di riordinare le idee per partire da qualche parte, ma le mie idee sono come quei capelli ribelli, quelli che più li pettini più si scompigliano, ingovernabili. Allora chiudo gli occhi e penso se prima l'aria e il suo odore, il colore del cielo o la stradina, oggi asfaltata, che conduce al cancello. Se dal comignolo fumante, dalla pianta dei cachi, spoglia e arancione. se dalla luce accesa nella cantinetta, dalla faccia assonnata e rugosa di mio padre che abbozza un sorriso, dal profumo di lana vecchia e di pelle pulita di mamma, di cibo e di detersivi.
Da dove.
Da che parte partire, bella domanda, dalla mia camera oggi totalmente modernizzata, quella che aveva due lettini con un comodino centrale e le due abat-jour: Cappuccetto rosso con, al posto della fragola, una lampadina rossa nel cestino che portava dalla nonna, quella di mia sorella un Moschettiere con il naso da clown che si illuminava. Quanto mi piacevano, quanto era bello osservare la luce colorata. pensieri al presente e al divano-letto, sotto l'armadio a ponte, mamma è sempre stata una donna molto attenta a sfruttare gli spazi al meglio, l'unica cosa rimasta uguale sono i tendoni e il lampadario, il resto è solo qui, nella mia mente, ingovernabile come i pensieri, i capelli e i ricordi. Ingovernabile che non sa da dove farti partire, allora scrivi, parli e pensi senza capo né coda. E senti freddo, lontana da quella stufa a legna e da tutto quel buono che non hai mai dimenticato; e ti fermi un po' di più, ché di andare via non se ne parla, quando sei a casa.
Tiro su i capelli e ci pianto un mollettone, ascolto il crepitio del ciocco di legno e penso a Pinocchio, mi scappa un sorriso e mamma mi chiede se sto sognando, sorrido di più e vorrei prenderla in braccio o farla ballare, papà dal divano sorride con gli occhi chiusi e penso che stia sognando una bambina con le trecce che scappa via inseguita da un ramarro.
Ingovernabile, come la nostalgia e i "ti ricordi Silvy…" che hanno la voce lontana lontana e colori sbiaditi delle cose passate.
Oggi sono romantica e parlo d'Amore. Di quello che tocchi, che ti ha nutrito e cresciuto. Oggi la poesia è nella faccia rugosa di mio padre che si addormenta appena si siede, nei capelli bianchi di mia madre che mi ricorda sempre di più mia nonna, la mia amata nonna che sorrideva silenziosa, anche lei, forse, con i colori sbiaditi della nostalgia, ma non mi diceva "Ti ricordi, Silvy", io l'abbracciavo e ricordavo ogni bacio e ogni mestolata presa, e restavamo così, in silenzio.
La mia nonna-mamma e io.
sono tornata a casa, da settimane, stamani ho chiesto a mamma se ha fatto l'albero di Natale e mi ha risposto che non sa dove metterlo perché ha dovuto tirare dentro le piante esterne, le ho suggerito di fare quello piccolo piccolo e ha detto che lo farà, anche se fuori ha addobbato per bene il gazebo "Così non brontoli" e il sorriso nella voce tradisce quel salto nel passato che al telefono non si vede, ma si sente. E mi sento lì, seduta sul pavimento, nella penombra del salotto ad ascoltare l'albero e le sue luci mal funzionanti. E mi sento piccola e protetta, felice e amata. E amo.
Oggi parlo d'amore perché l'odio solca le rughe peggio del tempo.
Oggi sono romantica perché qualcuno dovrebbe pur dirlo che c'è bisogno di quel romanticismo che avevamo da piccoli, quello che da seduti ci faceva vedere le cose da un'altra prospettiva, ma non lo dicevamo, perché eravamo impegnati a costruirci un futuro a prova di adulto, protetti dalle lucine mal funzionanti di un albero di Natale che sapeva di resina e perdeva più aghi di un sarto distratto.
Sono romantica, oggi, anche se c'è il sole, ma aspetto il finale a sorpresa, come in quei film Natalizi in cui le temperature sono da record ma poi alla fine nevica quando le cose si sono appianate, qualche ora prima che arrivi Natale.
Ho chiesto a mamma se farà il pasticcio di pollo, negli antipasti, ha risposto che vorrà fare anche una cosa nuova che ha visto in tv. Nella voce quel "torno subito" di quando il passato bussa e tu hai voglia solo di giocare a campana a ritroso nei tuoi ricordi. E siamo noi due, in cucina, io che sfilaccio il petto di pollo, rigorosamente con le dita, perché deve essere così, lei che monta la maionese e, sconfitta, annuncia che è impazzita, mentre io mi preoccupo tantissimo, tanto da correre da mio padre a dire "non mangiare il pasticcio di pollo perché ci attacca la malattia di Gaetano". Gaetano era il nonno dei miei vicini, un signore anziano che regalava elastici come fossero gioielli, mangiava le caramelle e dava le carte ai bambini. Viveva in un mondo tutto suo, non era pericoloso e per farci essere educate con lui, la mamma aveva detto che era un po' matto, ma era pur sempre un nonno da ascoltare.
Oggi parlo d'amore, e lo faccio seduta accanto a un albero che, ogni anno, assorbe un Natale in più, che contiene ogni mio Natale, nessuno escluso, neanche quello della trappola per topi e della crosta di formaggio, neanche quello della pipì nella bacinella, quello di quando l'ho lasciato con in mano il diario dei miei silenzi e sono andata via per sempre o quello delle zeppole messe a gocciolare nella cassetta di legno rivestita dal lenzuolo. Parlo d'amore come lo so, scusate se non è all'altezza della situazione, ma guardo il mondo da un'altra prospettiva, qui, seduta sul pavimento ("e tutto il resto fuori").