… quella che conosce le proprie potenzialità, come tutti noi, che le sfrutta in tutto e per tutto, sperando e tentando di farlo al meglio. Che si dosa solo se poco convinta e, all'occorrenza, si riposa, chiudendo in fretta ogni rubinetto, economa di qualsiasi emozione.
… e poi ci sono io…
… quella che se ti sono amica ti dice "hai fatto male", però ti voglio bene lo stesso. E, se me lo chiedi, ragiono con te su come uscire dalla situazione critica in cui ti sei cacciata, ridendo anche, o dicendoti che ti farai male, ma la ferita deve essere disinfettata.
… e poi ci sono io…
… quella che ci resta male se mi volti le spalle perché sono stata leale e ti ho detto quello che pensavo, allora la prossima volta osservo e alzo le spalle, senza dire nulla, perché ho paura di soffrire scoprendo che con te non potevo essere me stessa.
… e poi ci sono io…
… quella che ha sempre avuto l'orgoglio negli occhi vedendo l'amica bella con un abito fatto su misura per lei, che ti consola se, nonostante la tua bellezza, lui è l'unico che non ti guarda. E mentre ti consolo ti dico che, non avendo più vent'anni, forse sarebbe ora di puntare anche su altro; ridendo con te di questo, sapendo entrambe che è vero.
… e poi ci sono io…
… quella che non rinnega un'amicizia o un amore, solo perché finiti. Quella che, quando non eri più mia amica ti ha avvisata "da ora in poi non dirmi più nulla. Ma ciò che mi hai detto o hai fatto fino a due minuti fa, lo porterò con me nella tomba.".
… e poi ci sono io…
… quella che incassa e sorride se le dici brutta, ma le viene da piangere se pensi oca.
… e poi ci sono io…
… quella che ha paura di essere elogiata troppo, che quando accade non sa cosa dire e gira le cose in modo da spostare il riflettore. Quella che odia la falsa modestia, ma ha paura di stare in prima fila, e fa sempre un passo indietro, per essere "amata" di più.
… e poi ci sono io…
… quella che resta pietrificata di fronte al dolore e, accecata dalla rabbia, piange. Perché sa che sta per dire cose che ti feriranno, ma in quel momento non importa, perché la rabbia ha bisogno di colpire e allora piango prima, mai dopo. Dopo ti abbraccia, e tu sai che non ero io quella.
… e poi ci sono io…
… quella che ha paura della morte delle persone care, anche della mia, perché "chissà quanto soffrirebbero loro, se succedesse a me" e per vigliaccheria accantona tutto e cerca un pensiero frivolo, uno qualsiasi, e se non ne trova ne prende uno in prestito.
… e poi ci sono io…
… quella che aspetta la neve, ama l'inverno e quando piove sorride, mentre il mondo intorno bestemmia.
… e poi ci sono io…
… quella che ha paura di disturbare, che prima di bussare passa davanti alla tua porta decine di volte e va dritta, quella che se trova aperto chiede "permesso" e se trova un sorriso si mette comoda e non ci pensa più.
… e poi ci sono io…
… quella che avverte quel vago senso di disagio di fronte a un certo tipo di persona, ma anche quella che non mette a loro agio i curiosi o i pettegoli; nessun merito, sono loro a starmi alla larga.
… e poi ci sono io…
… quella che non si vergogna d'imparare dagli altri, e tace di fronte a un argomento sconosciuto, ma apprende. E ringrazia.
… e poi ci sono io….
… quella che se le hai già detto quella cosa cinque volte, ma capisce che hai bisogno di parlare, fa finta di nulla e si meraviglia come la prima, ma se ti parli addosso, non ti perdona la seconda ripetizione.
… e poi ci sono io…
… quella che ha fatto tante cazzate, consapevole che ne farà altre. Tutte proporzionali al tempo che passa, e diffida di chi dice di non averne fatte.
… e poi ci sono io…
… quella che detesta i "te l'avevo detto", ti avvisa prima e dopo fa finta di nulla.
… e poi ci sono io…
… quella che dà, senza aspettarsi qualcosa in cambio, ma se si accorge che dai per ricambiare e dai solo quando hai preso, smette di offrirti anche un brustolino.
… e poi ci sono io…
… quella che non entra mai in competizione con altre donne, se non con se stessa, quella che è ancora capace di provare orgoglio e gioia di fronte a una Donna intelligente e imbarazzo di fronte a una vuota statuina.
… e poi ci sono io…
… quella che riconosce i tentativi standard, che detesta i complimenti seriali e che non vuole essere sorpresa, ma si sorprende quando non ha chiesto nulla.
… e poi ci sono io…
… quella che ama cucinare e si rilassa così, che non ama le spa perché non mi piace essere toccata da mani estranee e, al sushi o affini, preferisce una grigliata di carne in giardino.
… e poi ci sono io…
… quella che pregi e difetti sono cose che non mostro, perché miei, ma se li scopri sorrido e arrossisco.
… e poi ci sono io…
… quella che borse, scarpe e abbigliamento "la noia", però fa strage in profumeria, libreria, negozi di articoli per la casa e musicali.
… e poi ci sono io…
… quella che non ha mai scritto né parlato così tanto di sé. Quella che. Migliore o peggiore, mai uguale a nessun'altra. Come chiunque.
lunedì 20 gennaio 2014
venerdì 10 gennaio 2014
1001
Quando non puoi dormire vuoi; senza ponderare troppo, senza elencare nė chiedendosi i perché.
Dei mille e uno volti della notte riconosco quello stanco, quello con lo sguardo perso lontano, dentro una stanza che sa di fumo, di birra e di noi. Con le pareti proibite e le rifiniture complici, con l'interno rumoroso, con un "shhh, fai piano" nella testa, e un sorriso affiorato da quel morso partito dagli occhi.
Ti guardo e ti volti, il viso familiare "Tu, chi sei?" E mi riconosco in questa notte pigra e troppo lenta per riuscire a scappare, allora non resta che viverla e dormire lontano, che poi, dormire ė un po' fuggire, senza alzarsi dall'ozio, dormo via, tenendo gli occhi spalancati, passando dalle tue mani alle mie, senza soste inutili, noi che abbiamo fretta e non possiamo fermarci.
(Noi che non vogliamo)
Mentre disegno i volti della notte, ora luna ora sole, tramonto e alba. Notte trasformista, notte di bisogni e di voglie, una, cinque, dieci, mille e una notte, insonnia da favola, di quelle che "raccontamelo ancora" e ti vedi bella attraverso i suoi occhi, perché tu non sai guardarti così e non ti credi più, ma non è poi così importante crederti o forse sì, e non è questo il punto se a guardarti è la notte.
Quando non vuoi dormire voli via e saluti la luna, guardi la città da lassù e ti senti dio, solo che non schiacci alcun pulsante, perché non hai voglia di giocare, perché hai una notte che scivola via, poco pratica da gestire, ma c'è, e non posso mandarla a casa sua, allora non voglio essere dio, preferisco essere me, perché di sentire le voci della gente non ho testa.
Torno in quella stanza e stai già dormendo.
Fammi posto, fammi presto, fammi. Notte.
Dei mille e uno volti della notte riconosco quello stanco, quello con lo sguardo perso lontano, dentro una stanza che sa di fumo, di birra e di noi. Con le pareti proibite e le rifiniture complici, con l'interno rumoroso, con un "shhh, fai piano" nella testa, e un sorriso affiorato da quel morso partito dagli occhi.
Ti guardo e ti volti, il viso familiare "Tu, chi sei?" E mi riconosco in questa notte pigra e troppo lenta per riuscire a scappare, allora non resta che viverla e dormire lontano, che poi, dormire ė un po' fuggire, senza alzarsi dall'ozio, dormo via, tenendo gli occhi spalancati, passando dalle tue mani alle mie, senza soste inutili, noi che abbiamo fretta e non possiamo fermarci.
(Noi che non vogliamo)
Mentre disegno i volti della notte, ora luna ora sole, tramonto e alba. Notte trasformista, notte di bisogni e di voglie, una, cinque, dieci, mille e una notte, insonnia da favola, di quelle che "raccontamelo ancora" e ti vedi bella attraverso i suoi occhi, perché tu non sai guardarti così e non ti credi più, ma non è poi così importante crederti o forse sì, e non è questo il punto se a guardarti è la notte.
Quando non vuoi dormire voli via e saluti la luna, guardi la città da lassù e ti senti dio, solo che non schiacci alcun pulsante, perché non hai voglia di giocare, perché hai una notte che scivola via, poco pratica da gestire, ma c'è, e non posso mandarla a casa sua, allora non voglio essere dio, preferisco essere me, perché di sentire le voci della gente non ho testa.
Torno in quella stanza e stai già dormendo.
Fammi posto, fammi presto, fammi. Notte.
Etichette:
insonnia,
nonsenso,
notte,
ricordi,
riflessioni
lunedì 6 gennaio 2014
La testardaggine della Befana
È una notte di magia che da piccola aspettavo con paura e anche un po' di curiosità.
La Befana non mi è mai piaciuta, probabilmente la colpa è da attribuire a quel buontempone di mio padre, che si divertiva a terrorizzarmi con aneddoti che si concludevano quasi sempre con la Befana che mi avrebbe rincorso agitando la scopa (quale bambina sana di mente avrebbe potuto amare una vecchia strega sclerotica che odiava i bambini fino prenderli a scopate sulla schiena?) Così, la notte tra il cinque e il sei Gennaio, puntualmente, in casa mia c'era mia sorella silenziosa, lei era più grande e manteneva un certo contegno, papà che rideva, io che frignavo urlando che non avrei dormito in camera mia e la mamma che sgridava mio padre cercando di tranquillizzarmi inutilmente, e durante la notte, la solita storia:
La Befana non mi è mai piaciuta, probabilmente la colpa è da attribuire a quel buontempone di mio padre, che si divertiva a terrorizzarmi con aneddoti che si concludevano quasi sempre con la Befana che mi avrebbe rincorso agitando la scopa (quale bambina sana di mente avrebbe potuto amare una vecchia strega sclerotica che odiava i bambini fino prenderli a scopate sulla schiena?) Così, la notte tra il cinque e il sei Gennaio, puntualmente, in casa mia c'era mia sorella silenziosa, lei era più grande e manteneva un certo contegno, papà che rideva, io che frignavo urlando che non avrei dormito in camera mia e la mamma che sgridava mio padre cercando di tranquillizzarmi inutilmente, e durante la notte, la solita storia:
"Ro'? Ro'?Roooo?"
Il mio sussurro nella notte, non potevo urlare, mi avrebbero sgridata e se, per disgrazia, fosse arrivata la Befana in quel momento, sarebbe stato un disastro, mi avrebbe dato una scopata addosso perché non stavo dormendo, allora aspettavo che le luci fossero tutte spente e la casa silenziosa.
Dal mio lettino, con un comodino che mi separava dal letto di mia sorella, cercavo di attirare la sua attenzione e, quando succedeva questo, volevo solo una cosa.
"Che c'è?"
"Dormi?"
"Dormivo, cosa vuoi?"
"Posso venire nel tuo letto?"
Le risposte variavano, in genere.
"Smettila, dormi adesso." oppure "Ma non c'è niente e nessuno, dormi che domani mangiamo il cioccolato."
La mia risposta era chiara e concisa. Disarmante.
La mia risposta era chiara e concisa. Disarmante.
"Ma io ho paura"
Non ero una che girava intorno alle cose, la soluzione più semplice era arrivare al dunque dicendo la verità.
La luce accesa nella camera di mamma e papà metteva fine alla discussione, interveniva mia madre dicendo a tutte due di dormire, che non c'era niente e poi sentivo che brontolava sottovoce a mio padre che in quel momento non trovava più la cosa divertente come qualche ora prima.
La luce accesa nella camera di mamma e papà metteva fine alla discussione, interveniva mia madre dicendo a tutte due di dormire, che non c'era niente e poi sentivo che brontolava sottovoce a mio padre che in quel momento non trovava più la cosa divertente come qualche ora prima.
A luce spenta ricominciavo a chiamare mia sorella che, sfinita, e per paura che i miei sentissero di nuovo parlottare, mi diceva di andare da lei. E ci addormentavamo così. Strette in un lettino, sicure e sorelle.
A un certo punto della notte mia sorella si alzava e andava nel mio letto per dormire meglio, oppure mi svegliava e mi diceva di andare che era quasi giorno e io, insonnolita, obbedivo dimenticando scope, mostri o i fantasmi di cui parlava sempre la nonna paterna.
Generalmente mia sorella era più coraggiosa di me, anche perché capiva che le storie che raccontava mia nonna erano tutte inventate, e quelle di mio papà erano solo prese in giro, ma una sera anche il suo coraggio era stato messo a dura prova; e questo succedeva proprio la notte di un'Epifania di tanti, tanti anni fa.
Quella sera la mamma aveva preparato un minestrone così buono da essere battezzato e chiamato da mia sorella e da me, ancora oggi, "Il minestrone della Befana". Non un minestrone qualsiasi, ma un passato di verdura con la pasta e il pesto di basilico a metà cottura, per dare quel profumo che solo Genova riesce a comprendere realmente, molto denso e con tanto formaggio. Era l'unico modo per farci mangiare le verdure cotte, passarle e rendere il tutto il meno brodoso possibile.
In quel periodo c'erano in casa dei lavori in corso all'impianto di riscaldamento, era da poco trascorso un bellissimo Natale, quella sera si parlava del fatto che l'indomani la mamma avrebbe dovuto riporre le decorazioni e l'albero.
"Non possiamo tenerlo ancora un po'?"
Avevo sempre l'ansia quando si parlava di mandare la magia in soffitta, sapevo che la mamma avrebbe detto di no, spiegando che, dovendo andare al lavoro, successivamente non avrebbe avuto tempo.
Quella sera allungò la lista delle motivazioni.
"E poi, quando arriva la befana, riempie la calza ma deve portare via le feste."
Silenzio.
In quel momento realizzai due cose: Temevo la Befana e mi era anche antipatica perchè rubava il periodo più bello dell'anno.
Mio padre mi guardò, probabilmente intercettò la mia espressione e iniziò a prendere il discorso da lontano, ridacchiando:
"Che poi, sai, quella è un po' bisbetica, se non le dai qualcosa da portare via, ci sta che…"
E qui lo azzittì mia madre, con un mezzo sorrisetto malcelato dal tono severo.
"Smettila, che poi domani le troviamo tutte due sudate in un letto."
Questo bastò a farlo riprendere un po', memore di cosa succedeva quando avevo paura, e tutto finì in una frase rassicurante che sottolineava lo scherzo, troppo tardi.
Io con la Befana non scherzavo mai, per me, restava una vecchia matta che alzava le mani. E, anche se poi trovavo la calza piena, fino al mattino ero terrorizzata.
Io con la Befana non scherzavo mai, per me, restava una vecchia matta che alzava le mani. E, anche se poi trovavo la calza piena, fino al mattino ero terrorizzata.
Quella sera i discorsi sulla befana furono censurati, per un po' ci dimenticammo tutti di lei. Fino all'ora di andare a dormire.
Calze sistemate vicino all'albero di natale, due lunghi calzettoni di lana più un enorme calzettone grigio di mio padre che guadagnò due occhiate torve. Se la Befana avesse riempito il suo, a noi non sarebbe rimasto nulla, ed era proprio di questo che stavamo parlando mia sorella e io, quando la mamma, passando a salutarci, fece un passo falso.
Calze sistemate vicino all'albero di natale, due lunghi calzettoni di lana più un enorme calzettone grigio di mio padre che guadagnò due occhiate torve. Se la Befana avesse riempito il suo, a noi non sarebbe rimasto nulla, ed era proprio di questo che stavamo parlando mia sorella e io, quando la mamma, passando a salutarci, fece un passo falso.
"Forza, adesso però spegnete la luce, altrimenti la Befana se vi trova sveglie si arrabbia."
Generico. Una frase lasciata lì in fretta e con troppa leggerezza per rendersi conto che "Befana" e "rabbia" nella stessa frase, era un innesco potentissimo.
Babbo Natale passava dritto se i bambini non dormivano, ma non si arrabbiava lui. La Befana sì.
"quella è una bisbetica…"
Anche l'espressione di mia sorella era cambiata. Papà scherzava, la mamma diceva sempre la verità.
A luci spente tutto galoppa, anche le fantasie più assurde si realizzano al buio. Pensavo al lettone della nonna materna, se fossi stata lì, in mezzo a lei e mia sorella, sarei stata al sicuro.
"Vecchia"
Non vuole neanche il latte e biscotti, la sua scopa non mangia carote, e niente letterina per la Befana. Niente di niente.
"la befana si arrabbia"
Era passato poco tempo da quando le luci si erano spente, dovevo sempre aspettare un po,' prima di iniziare a chiamare mia sorella, dovevo aspettare che i miei dormissero.
"Silvy?"
Mia sorella era una principiante, era troppo presto per chiamarmi, e poi, non era lei quella che doveva venire nel mio letto, ero io la più piccola.
(Se aveva paura anche lei, era la fine. La Befana era davvero pericolosa.)
"Che c'è?"
"Forse la mamma non voleva dire che la befana si arrabbia, voleva dire che andrà dritta."
Luce dalla stanza dei miei e solito rimprovero.
Buio.
Silenzio.
Buio.
Silenzio.
Pensavo a mia nonna, a casa sua e al lettone, entro poco sarei tornata a dormire con lei, e non vedevo l'ora che ricominciasse la scuola, solo per questo.
Pensavo alla befana, alla sua voce stridula, al suo naso bruttissimo e al neo sul mento. Allontanavo tutto questo pensando a Babbo Natale, al suo pancione e alla risata grassa e contagiosa; ai doni che mi aveva portato e ai dolcetti che avrei mangiato l'indomani.
La Befana.
Nonna, nonna, nonna.
La nonna mamma non mi raccontava mai fiabe spaventose come l'altra nonna, la nonna mamma mi raccontava Pinocchio e altre storie, mai fantasmi o streghe che rapivano le bambine.
La nonna mamma non mi raccontava mai fiabe spaventose come l'altra nonna, la nonna mamma mi raccontava Pinocchio e altre storie, mai fantasmi o streghe che rapivano le bambine.
"SBAM!"
Un rumore fortissimo aveva interrotto il mio debole tentativo di pensare ad altro. Luci accese, mia sorella e io sedute sul letto, mamma e papà in piedi a controllare.
"Dormite, non è successo nulla, era solo il coperchio del wc che si è abbassato."
Papà e mamma ridacchiavano dalla loro stanza. Papà rideva quando parlava della befana.
"Ro'?"
"Sì. Vieni qui."
Quella notte nessuna di noi due si era alzata per dormire più comode. Mentre restavamo appiccicate come album e figurina, i cuori iniziavano a rallentare la corsa, il sonno soffiava sui nostri occhi e il buio si colorava di sogni.
La voce della mamma ci trovò così; abbracciate in un lettino, i lunghi capelli appiccicati ai visi arrossati dal caldo eccessivo.
"Possibile che dobbiate dormire male, come devo fare con te?"
Il suo rimprovero era poco convinto, i miei occhi colpevoli e assonnati si posarono sul sorriso della mamma e l'udito intercettò un colpo di tosse dalla stanza di papà.
A differenza della mattina di Natale, il sei gennaio non mi alzavo per correre a guardare l'albero.
Ero una bimba attenta all'ABC delle norme di sicurezza personale.
La curiosità c'era, la voglia di guardare la calza anche, ma non volevo andarci da sola.
Scesi dal letto di mia sorella e scivolai tra le braccia di mia madre che mi portò nel lettone, da papà, borbottando perché ero tutta sudata, intanto chiamavo mia sorella affinché venisse anche lei. In realtà volevo andare a controllare la calza con qualcuno.
Quella mattina mio padre era stranamente tranquillo, nessun riferimento alla befana o al rumore notturno, niente di niente, e non era da lui. Quando mia sorella fece capolino nella stanza dei miei, ero pronta per andare a vedere cosa c'era in quell'angolo del corridoio.
Ormai la Befana doveva essere lontana.
Quando andavamo a guardare l'albero o le calze, i miei restavano sempre nella loro camera, inizio a credere che nel nostro modo di chiamarli, con l'entusiasmo e la meraviglia nella voce, ci fosse qualcosa di magico alle loro orecchie.
Quella mattina arrivammo lì e non trovammo le nostre calze. Silenzio e delusione.
"Mamma."
Un sussurro che io stessa stentavo a sentire.
I miei si affacciarono con espressioni degne di attori consumati. Facce preoccupate, eccessivamente serie, ma ero troppo piccola per badare a questa recita, gli occhi non si staccavano dal punto in cui erano state messe le nostre calze e non solo non c'erano dolci e sorprese, ma la befana si era portata via anche le nostre calzette.
"Oh miseriaccia, e dove sono le calze? Va beh dai, la mamma ve le ricomprerà più belle."
Ma il punto non era quello, il fatto era molto più serio, e papà sembrava proprio non capirlo. La Befana era passata e non aveva lasciato niente. Neanche una testa d'aglio per dispetto. Niente di niente.
Vecchia, brutta, bisbetica e ladra.
"Dai, oggi pomeriggio usciamo a comprare caramelle e cioccolatini, avrete lo stesso i vostri dolcetti."
Almeno la mamma era più pratica, restava il fatto che la befana da noi non lasciava mai caramelle e cioccolatini in calze prefabbricate, da noi la befana lasciava sempre uno scarponcino di cioccolato a testa, pieno di cioccolatini, caramelle, bastoncini di zucchero e carbone dolce. Bianco e nero. Lo scarponcino era una cosa che solo la befana lasciava, ed erano pochi i bambini che lo ricevevano.
Quella mattina mi trovavo a osservare un albero di Natale che pregustava il letargo e due spazi vuoti. Guardai il mio albero, non brillava come al solito, avrei dovuto salutarlo. Mi avvicinai e, proprio sotto, appoggiato al muro, c'era qualcosa.
"PAPÀ!!! Mamma, mamma, Ro'…"
Il dito a indicare quello spazio nascosto e occupato da un grosso, enorme calzettone grigio con dentro due calzette rosse piene di dolciumi.
Le facce felici di mia sorella e la mia, quella vispa e furba di mio padre che reclamava le leccornie continuando a dire "Sono mie, sono mie, la befana le ha lasciate a me." e la mia preoccupazione, del resto non aveva tutti i torti e quella calza era davvero la sua.
Come sempre, fu mia madre a chetare gli animi, disse che la befana era una vecchietta, che forse era stanca e, siccome vedeva poco, aveva messo tutto nella calza più grande.
Quella fu un'Epifania un po' movimentata, guardavo il mio scarponcino che conteneva anche un paio di spicchi d'aglio (era un monito che non mancava mai), mentre mangiavo una caramella i miei genitori elogiavano la befana "Non è poi così male, visto? È una vecchina stanca che ama i bambini e porta loro dolcetti e gioia", ma io non sono mai stata convinta di questo; la Befana non mi è mai piaciuta, e serviva ben altro per convincermi del contrario. E questa cosa non poteva essere messa in una calza. La simpatia, la devozione, l'amore e l'amicizia, che tu sia adulto o bambino, non si comprano con un paio di dolcetti, né con i regali.
Ora vado a dormire, non vorrei avere un incontro ravvicinato con una scopa, anche se non appendo più la calza da anni, resta quell'atmosfera un po' cupa, quella da "due in un lettino, strette e sudate".
La notte è trascorsa, mi alzo e preparo il caffè, dimentico il sei gennaio, dimentico la befana e passando dalla sala scorgo Natale (il mio albero), penso che devo metterlo a riposare, oggi lo saluterò. Mi avvicino per accenderlo, ancora per un'oretta, e trovo una sorpresa. Non è lo stivaletto di cioccolato, niente aglio, niente carbone, niente paura. Ma è riuscita a trovarmi ancora, quella testarda. Ho riposto il mio albero, è sera, mi manca la luce calda rosso e oro che per un po' di settimane ha scaldato le mie serate al pc. Mangio una barretta kinder, sorrido e penso ancora di no. Non mi piace la Befana, e non capisco cosa lei trovi in me, probabilmente sa che la colpa è un po' di mio padre, che ancora oggi ridacchia al pensiero del coperchio del wc che si chiude nel silenzio della notte, forse ha pochi bambini che credono in lei, e cerca gli adulti di quell'infanzia credulona che si meravigliava con quella luce negli occhi e l'emozione nella voce. Forse è questo; non mi piace la befana, però sorrido al pensiero che io possa piacere a lei. Ancora.
Papà e mamma ridacchiavano dalla loro stanza. Papà rideva quando parlava della befana.
"Ro'?"
"Sì. Vieni qui."
Quella notte nessuna di noi due si era alzata per dormire più comode. Mentre restavamo appiccicate come album e figurina, i cuori iniziavano a rallentare la corsa, il sonno soffiava sui nostri occhi e il buio si colorava di sogni.
La voce della mamma ci trovò così; abbracciate in un lettino, i lunghi capelli appiccicati ai visi arrossati dal caldo eccessivo.
"Possibile che dobbiate dormire male, come devo fare con te?"
Il suo rimprovero era poco convinto, i miei occhi colpevoli e assonnati si posarono sul sorriso della mamma e l'udito intercettò un colpo di tosse dalla stanza di papà.
A differenza della mattina di Natale, il sei gennaio non mi alzavo per correre a guardare l'albero.
Ero una bimba attenta all'ABC delle norme di sicurezza personale.
La curiosità c'era, la voglia di guardare la calza anche, ma non volevo andarci da sola.
Scesi dal letto di mia sorella e scivolai tra le braccia di mia madre che mi portò nel lettone, da papà, borbottando perché ero tutta sudata, intanto chiamavo mia sorella affinché venisse anche lei. In realtà volevo andare a controllare la calza con qualcuno.
Quella mattina mio padre era stranamente tranquillo, nessun riferimento alla befana o al rumore notturno, niente di niente, e non era da lui. Quando mia sorella fece capolino nella stanza dei miei, ero pronta per andare a vedere cosa c'era in quell'angolo del corridoio.
Ormai la Befana doveva essere lontana.
Quando andavamo a guardare l'albero o le calze, i miei restavano sempre nella loro camera, inizio a credere che nel nostro modo di chiamarli, con l'entusiasmo e la meraviglia nella voce, ci fosse qualcosa di magico alle loro orecchie.
Quella mattina arrivammo lì e non trovammo le nostre calze. Silenzio e delusione.
"Mamma."
Un sussurro che io stessa stentavo a sentire.
I miei si affacciarono con espressioni degne di attori consumati. Facce preoccupate, eccessivamente serie, ma ero troppo piccola per badare a questa recita, gli occhi non si staccavano dal punto in cui erano state messe le nostre calze e non solo non c'erano dolci e sorprese, ma la befana si era portata via anche le nostre calzette.
"Oh miseriaccia, e dove sono le calze? Va beh dai, la mamma ve le ricomprerà più belle."
Ma il punto non era quello, il fatto era molto più serio, e papà sembrava proprio non capirlo. La Befana era passata e non aveva lasciato niente. Neanche una testa d'aglio per dispetto. Niente di niente.
Vecchia, brutta, bisbetica e ladra.
"Dai, oggi pomeriggio usciamo a comprare caramelle e cioccolatini, avrete lo stesso i vostri dolcetti."
Almeno la mamma era più pratica, restava il fatto che la befana da noi non lasciava mai caramelle e cioccolatini in calze prefabbricate, da noi la befana lasciava sempre uno scarponcino di cioccolato a testa, pieno di cioccolatini, caramelle, bastoncini di zucchero e carbone dolce. Bianco e nero. Lo scarponcino era una cosa che solo la befana lasciava, ed erano pochi i bambini che lo ricevevano.
Quella mattina mi trovavo a osservare un albero di Natale che pregustava il letargo e due spazi vuoti. Guardai il mio albero, non brillava come al solito, avrei dovuto salutarlo. Mi avvicinai e, proprio sotto, appoggiato al muro, c'era qualcosa.
"PAPÀ!!! Mamma, mamma, Ro'…"
Il dito a indicare quello spazio nascosto e occupato da un grosso, enorme calzettone grigio con dentro due calzette rosse piene di dolciumi.
Le facce felici di mia sorella e la mia, quella vispa e furba di mio padre che reclamava le leccornie continuando a dire "Sono mie, sono mie, la befana le ha lasciate a me." e la mia preoccupazione, del resto non aveva tutti i torti e quella calza era davvero la sua.
Come sempre, fu mia madre a chetare gli animi, disse che la befana era una vecchietta, che forse era stanca e, siccome vedeva poco, aveva messo tutto nella calza più grande.
Quella fu un'Epifania un po' movimentata, guardavo il mio scarponcino che conteneva anche un paio di spicchi d'aglio (era un monito che non mancava mai), mentre mangiavo una caramella i miei genitori elogiavano la befana "Non è poi così male, visto? È una vecchina stanca che ama i bambini e porta loro dolcetti e gioia", ma io non sono mai stata convinta di questo; la Befana non mi è mai piaciuta, e serviva ben altro per convincermi del contrario. E questa cosa non poteva essere messa in una calza. La simpatia, la devozione, l'amore e l'amicizia, che tu sia adulto o bambino, non si comprano con un paio di dolcetti, né con i regali.
Ora vado a dormire, non vorrei avere un incontro ravvicinato con una scopa, anche se non appendo più la calza da anni, resta quell'atmosfera un po' cupa, quella da "due in un lettino, strette e sudate".
La notte è trascorsa, mi alzo e preparo il caffè, dimentico il sei gennaio, dimentico la befana e passando dalla sala scorgo Natale (il mio albero), penso che devo metterlo a riposare, oggi lo saluterò. Mi avvicino per accenderlo, ancora per un'oretta, e trovo una sorpresa. Non è lo stivaletto di cioccolato, niente aglio, niente carbone, niente paura. Ma è riuscita a trovarmi ancora, quella testarda. Ho riposto il mio albero, è sera, mi manca la luce calda rosso e oro che per un po' di settimane ha scaldato le mie serate al pc. Mangio una barretta kinder, sorrido e penso ancora di no. Non mi piace la Befana, e non capisco cosa lei trovi in me, probabilmente sa che la colpa è un po' di mio padre, che ancora oggi ridacchia al pensiero del coperchio del wc che si chiude nel silenzio della notte, forse ha pochi bambini che credono in lei, e cerca gli adulti di quell'infanzia credulona che si meravigliava con quella luce negli occhi e l'emozione nella voce. Forse è questo; non mi piace la befana, però sorrido al pensiero che io possa piacere a lei. Ancora.
Iscriviti a:
Post (Atom)