venerdì 27 settembre 2013

Autunni dimenticati

Si legano i ricordi all'estate o alle festività invernali dimenticando, spesso, le stagioni di transito. La primavera, tanto tanto, se la cava e fa la sua carrellata tra le prime cerette, la corsa per rimediare quell'insufficienza o le giornate che si allungano. E  l'autunno?
Il grande incompreso dell'anno, eppure i miei ricordi legati a questa stagione sono così tanti da poter scrivere giornate intere, senza tralasciare nulla, neanche quella maglia a maniche lunghe che mi faceva grattare le braccia, perché quando ero piccola l'arrivo dell'autunno portava la magia della sparizione di ogni abito estivo, mica aveva tempo da perdere mia madre, rientrava al lavoro anche lei, e il cambio degli armadi era sacrosanto. Non guardava troppo il meteo, ma il calendario e le giornate di lavoro che l'avrebbero fatta rientrare a casa con il buio, senza contare che il meteo prima calzava con il calendario (solo un modo diverso per dire "non ci sono più le mezze stagioni", una vera ovvietà), quindi l'impatto con le calze e le maglie a manica lunga era meno traumatico. Le calzature, invece, erano più dure da digerire. Dopo mesi passati a camminare scalza, diventavano trappole per topi e le vesciche dovevano rimarginarsi prima di iniziare la scuola. Questione di sopravvivenza.
Dei miei autunni ricordo i fine settimana passati con i nonni paterni; cresciuta con la mia nonna preferita (inutile girarci intorno, quella materna era una mamma-nonna, gli altri erano i nonni. L'affetto c'era, ma era diverso) che, durante il periodo scolastico, per esigenze organizzative, vedeva mia sorella e me ospiti fisse a casa sua e il fine settimana si tornava da mamma e papà, prima però si passava sempre a salutare i nonni paterni. Ci fermavamo il venerdì sera a cenare con loro ("però mamma, io qui non ci dormo perché non c'è un buon odore") e, generalmente, la domenica venivano loro a casa dei miei per passare la giornata con noi. La nonna paterna era la classica vecchietta asciutta e piccola. In genere i bambini hanno una strana concezione delle misure, sembra tutto più grande di ciò che è e,  se a sei o sette anni vedevo la nonna piccola, sicuramente doveva essere stata tascabile. Consapevole del fatto che io ero quella che piangeva come una fontana perché mi mancava l'altra nonna e che cercavo di assumere un atteggiamento da nipotina adorabile, sotto minaccia e occhiatacce di mia madre che non voleva far esplodere un caso diplomatico con la suocera, cercavo sempre di correre da lei con proposte di giochi costruttivi.

"Nonna, nonna, vieni che ti lavo i capelli e ti metto il profumo."

Del resto mi era stato vietato di parlare del suo odore, non di trovare un rimedio. Purtroppo lei era molto permalosa e rispondeva prontamente di non averne bisogno, con quella punta di acidità che non riusciva sempre a contenere, neanche con una bambina. Il nonno era più allegro, non ho mai conosciuto il nonno materno, quindi la figura del nonno era la sua. Indiscutibile.
Lui mi ha insegnato a giocare a carte, a tirare con la fionda, a fare la gara a chi riusciva a togliere più crosticine dalle gambe (quando cadevo e sbucciavo le ginocchia mi faceva smettere di piangere dicendomi che da lì a pochi giorni, lo avrei battuto nella gara a farsi uscire il sangue, ed io ero felicissima. Un po' meno mia madre) e, sempre mio nonno, mi faceva fumare (per finta e per sentire mia madre urlare un po'). I nonni paterni erano molto più vecchi della mia nonna Rosa, si lamentavano spesso per i dolori e per ogni acciacco dovuto all'età, la nonna sottolineava sempre che l'altra nonna sicuramente non aveva di questi problemi e, ingenuamente, rispondevo di no, ma che lei aveva anche la pelle più liscia ed era più forte perché mi prendeva in braccio per giocare o mi rincorreva per darmi uno scappellotto, riuscendoci in pochissimo tempo. Allora, ferita nel suo orgoglio di nonna, cercava di rimediare raccontandomi una storia. Mia nonna era bravissima a raccontare storie. Principesse, regine e Principi? Macchè, sono cresciuta a streghe che rapivano bambine, solo le femmine, diavoli tentatori e la morte con la falce che fece morire un'intera foresta in poche ore per trovare un fuggiasco e poi farlo soffrire fino alla dipartita. L'ascoltavo rapita, lei faceva anche le voci cattive e mimava le parole con l'espressione giusta per ogni personaggio. Successivamente c'era il purgatorio. Facevo passare la notte in bianco a tutta la famiglia perché avevo paura. Fu così che finì anche l'era delle storie della nonna (e comunque Zio Tibia era un principiante rispetto lei) ma le domeniche autunnali dovevano essere impiegate in qualche modo.

Un po' per l'età, un po' perché in estate i nonni avevano troppo caldo per uscire da casa, il periodo in cui li vedevo di più era proprio l'autunno.
Quando pioveva durante la settimana e il weekend regalava giornate di sole, si andava per funghi. La nonna era vecchia, si lamentava per i dolori, diceva sempre di non farcela a fare niente ma, quando lontana dai miei genitori, andava dritta come un fuso e avrebbe seminato anche le gazzelle. Lei trovava un sacco di funghi, anche io, solo che erano velenosi e tiravo su tutto quello che vedevo. Una volta li misi nel suo cestino e si arrabbiò molto, quindi non mi portò più per funghi.
Il bosco era vicino a casa, ricordo quanto basso sembrasse il cielo, l'unica parte di azzurro che intravedevo dalle cime degli alberi fitti e neri, con il sole negli occhi e i rami che mi graffiavano le gambe "Guarda dove metti i piedi e resta nel sentiero pulito o le bisce faranno  festa." Bastava questo a riportarmi con i piedi al suolo. Ricordo le foglie marcite e calpestate, l'odore di muffa e tutto quel muschio intorno che mi faceva venire voglia di togliere gli stivaletti per sentire la sua morbidezza sotto i piedi.
Degli autunni passati ricordo ogni colore bruciato, dall'arancione delle foglie vecchie a quelle di mezza età che sfoggiavano ancora qualche striatura di verde. Ricordo la mia voglia di raccogliere le ghiande, mi piaceva la loro forma; nonna mi diceva che non servono a niente, allora ricordo di aver pensato che sarebbe stato bello avere un maiale e poterle raccogliere per un motivo valido, allora, mi limitavo a disegnarle e colorarle, con i toni dell'autunno, una foglia arancione e gialla, un legnetto con attaccate due bellissime ghiande panciute. Peccato davvero non aver avuto un maiale a cui portarle.

Fallito miseramente anche il tentativo di raccogliere funghi, con me, la nonna decise di provare con le castagne. Di alberi, vicino a casa mia, ce n'erano decine, "ma nel bosco ci sono quelle più grandi e sane" e, ancora una volta, mi trovavo a correre tra la natura stanca, cercando di aprire un riccio e togliere le castagne senza bucarmi le dita. A volte capitava di scivolare e piantarsi le spine nel deretano, ma erano i rischi dell'avventura. Quando con noi veniva anche il nonno, intagliava sempre un bastone per far rumore, affinché le bisce scappassero (niente vipere, anche se per me erano tutti serpenti) e con lui  ci divertivamo di più. Il nonno fingeva di perdersi o si nascondeva. Con la nonna dovevamo stare anche attente a nasconderci dietro un albero con la maglietta rossa e sventolando le mani. Lei fingeva sempre il colpo al cuore e poi raccontava a mio padre che eravamo impossibili "Soprattutto la piccola, non la tieni ferma neanche con il guinzaglio e deve toccare tutto." E io pensavo che da lì a poco sarebbe iniziata la scuola e "addio nonna, devo fare i compiti" tanto il bosco non si copriva in autunno, lo avrei visto anche da casa e comunque mi ci avrebbe portato papà. Con lui potevo prendere le ghiande e toccare anche i lombrichi con i bastoncini, l'unica cosa che non potevo fare era far finta di perdermi, questo dopo che mi sono persa davvero, ma è un'altra storia.

I miei autunni passati profumano di libri di testo, colori a matita e inchiostro. Di gomme e altri articoli da cancelleria, di quaderni e cuoio. Ricordo la gioia nell'infilare il naso tra le pagine dei quaderni e dei libri nuovi, un odore diverso rispetto i romanzi, entrambi gradevoli, ma diversi. E mentre il paesaggio intorno a me sembrava un unico e interminabile tramonto, patteggiavo con mia mamma la scelta del diario o dello zaino. Il dilemma era sempre quello: Robusto o bello, un dramma. Riuscivamo ad accordarci: lei mirava appositamente al diario più brutto del secolo, io puntavo i piedi, allora faceva finta di darmela vinta per avere potere assoluto sul resto. Si tornava a casa con il buio intorno al mondo, la proiezione di ombre minacciose e nell'aria l'odore di bruciato, qualcuno aveva ammucchiato le foglie secche.
Mentre la mamma preparava la cena, mia sorella e io ammiravamo il bottino scolastico.
"Aspettate, devo fasciare i libri così non si sciupano."
Ma sentire l'odore non era sciupare, era una piacevole sensazione che trattenevo, sapendo che da lì a poche settimane quel profumo sarebbe svanito lasciando spazio alla mancanza di voglia di alzarsi e, men che meno, di fare i compiti.

I miei autunni passati profumano di caldarroste, dita scottate e nere; rivedo la vecchia padella forata e la nonna che incideva le castagne,
"Metti giù quel coltello, ché ti tagli"
Si aspettava un pomeriggio grigio come quello di oggi per accendere il fuoco  e mi dovevano anche tenere lontana da esso, vista la mia predisposizione a incendiare tutto (e non scherzo), quindi mi limitavo a guardarlo rapita. Ho sempre trovato la bellezza del fuoco irresistibile, in tutte le sue forme. Oggi maneggio con cura fiamme differenti e, apparentemente, meno pericolose. Ma non per questo bruciano meno, io questo lo so.
Il tavolo pieno di castagne, spine e foglie; per terra il cestino un po' sgangherato e, in un angolo del tavolo, un foglio con disegnato sopra ricci e ghiande (so che non si possono mangiare, ma le amo ancora oggi), qualche colore abbandonato qua e là, dimenticato per lasciarmi distrarre dalla nonna-mamma che, velocissima, riempiva la padella.
Autunni di scintille e profumi mai uguali.
"Ecco, stai lontana, ché scotta ora la padella"
E, mentre con destrezza afferrava il manico avvolto in uno straccio vecchio, guardavo le castagne danzare in aria per poi cadere tra piccole scintille. La gioia dentro, i pugni chiusi e l'acquolina in bocca.
"Nonna mi sono tagliata, ma non fa niente." Mentre stringevo forte il dito senza il coraggio di guardare.

Ne sono passati parecchi di autunni, più di quanti riesca a contenere, ognuno con odori diversi, i colori sempre quelli, finché i miei occhi hanno voluto ammirarli, ma le distrazioni sono sempre dietro l'angolo. Ricordo gli autunni della pre-adolescenza.
Andavo a comprare il diario, dopo aver consultato la mia compagna di classe e avere optato, insieme, per quello più consono alla moda del momento. Non avevamo tempo da perdere e le cose da comprare erano tante. Inclusi i trucchi.
Fare la cresta sui soldi delle "spese necessarie" per farci entrare dentro il fard o la matita nera per occhi era diventata una necessità. La mamma non doveva saperlo, perché alle medie ancora non era tempo per truccarsi, non da casa; allora compravo il necessario per sentirmi grande al supermercato e non in profumeria.
Autunni di profumi di cosmetici a buon mercato e di sole in polvere, per quando i segni dell'estate mi avrebbero abbandonata.
La sera, a casa, mia madre fasciava i libri di testo in sala mentre io, in cameretta, tenevo tra le dita la scatoletta rotonda, preziosa, profumata, dalla spugnetta ancora pulita, a parte quel piccolo lembo intinto per provare la tonalità sulla mano, e non vedevo l'ora d'impallidire per usarla.
Autunni di piccole donne vissute che ostentavano la sicurezza della conoscenza, ma portavano dentro l'esperienza del bosco.

Mi fermo qui. Gli autunni successivi sono pagine di vita piene di errori e risate, di finte tragedie e ribellioni. Tutto nella norma. Tutto in una stagione che pian piano è stata messa nel dimenticatoio. Come la stanchezza di una foglia che si stacca dall'albero, in silenzio, senza che qualcuno la trattenga.







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