venerdì 18 ottobre 2013

Lancette ferme

"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"
No, aspetto l'alba e non vorrei fosse in ritardo; l'alba non aspetta ed è da tanto che non la vedo, che non le dico quanto sia felice di averla di fronte. Un tempo eravamo grandi amiche, l'alba e io, l'aspettavo con il mio caffè bollente in mano e restavo incantata a guardarla, con il cuore sollevato.
Accadeva quando subivo la presenza della notte, quando avevo paura di dormire e restavo sveglia nella speranza che l'alba arrivasse in tempo, con le sue sfumature color pastello e lo sbadiglio alla mano.
So che è tardi, so che dovrei dormire da almeno un'ora, facciamo due, e so anche che con la febbre non si resta svegli a piedi scalzi, però è più forte di me, e questa notte ho voglia di guardare le stelle ascoltando musica. "Fumo l'ultima e poi vado", non sarà una bugia che mi racconto in più a rovinarmi la reputazione, e che male c'è ad ascoltarsi ancora un po'.
Fuori la notte sta danzando intorno alla città che dorme, mentre mi domando se dalle tue braccia il suono ora sia più o meno melodioso, mentre penso che sarebbe una notte  differente, se fossi stretta a te, allora potrebbe arrivare anche il temporale, dormirei lo stesso e sentiresti il mio cuore battere forte, vedresti i miei occhi chiusi, fingerei di dormire mentre conto il tempo che passa tra il fulmine e il tuono, ma dovrei ricominciare, perché fra le tue braccia non ci riuscirei.

Ho spento il cellulare, ho lasciato il brusio della gente fuori e penso a quando non c'erano altre anime che giocavano a dadi con la notte, forse sarebbe stato tutto più facile, forse avrei trovato il coraggio di andare a dormire e avrei imparato che le persone smettono di esistere, che la morte non si ferma a guardare quanti anni hai e quando deve raccogliere fa la conta. Forse non avrei avuto paura se il vociferare del telefonino fosse entrato a far parte della mia vita prima, ma ho imparato da sola, certo, ci ho messo un po' di più perché non mi ascoltavo e non lo dicevo di avere paura, perché le persone che amo non dovevano preoccuparsi troppo per me, non volevo che non dormissero, che non mangiassero e che tenessero i piedi rannicchiati sulla sedia per evitare che il buio li toccasse. Fingevo con chiunque, anche con me. Soprattutto con me.

Questa notte ha qualcosa di diverso, sarà la pettinatura o la voce, forse il cielo stellato le dona quel tocco di classe che la pioggia nasconde, ma quanto tempo impiegherà la notte per farsi bella? Anche per questo non posso andare a dormire senza guardarla almeno per un po'. Ci resterebbe male.

"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"

No. È che per me è rischioso andare oltre quel lasso di tempo che ancora si può chiamare "mancanza di sonno". Di notte, "Oltre" è un nome pericoloso, che non voglio sentire e non voglio guardare.
Penso ad altro, mangio le olive e penso.
Da piccola ero felice, lo ero anche quando pensavo di non esserlo, da adolescente; lo ero perché mi spiegavano le cose, non c'era mai un No fine a se stesso, neanche un Sì non meritato.
Ero felice perché costruivo una panca di legno con mio padre, e ogni volta che vado a trovarli la vedo lì. Consumata, traballante e piccola, eppure mi sembrava così grande. Sempre lucida di vernice e neanche buona per il fuoco. Mi ci siedo sopra e mio papà sorride, lo sguardo come quello di un tempo, forte di gioventù, i lineamenti no, ma da come mi guarda so che mi vede piccola e con le trecce, intenta a passare i chiodi e a usare un  pezzo di leggo per battere su quelli già piantati da lui (Così sei tu a rinforzarla) e sorridiamo entrambi, mentre sorseggio un caffè, mentre parliamo di politica o del lavoro, mentre passo la mia mano su quei chiodi ben piantati dalla testa arrugginita, mentre mi regalo, idealmente, una carezza sulla manina.

Penso a mia mamma che guardava la casa nella prateria e prendeva spunto da quella famiglia semplice per sentirsi forte e regina della casa. E aveva ben tanti motivi per sentirsi tale. Lei, sposa bambina che si è sentita chiamare "mamma" quando ancora aveva lei stessa quella parola sulla bocca e il bisogno nel cuore. Lei, che ha sempre fatto la parte del generale cattivo per non farci allontanare dalla figura paterna che spesso era via (con la mamma sotto gli occhi il rapporto si recupera sempre, con papà in trasferta potrebbe rimanere l'astio) Lei, che quando dava un castigo non tornava indietro e si pentiva di averlo detto a voce alta perché sapeva che per essere credibile non avrebbe dovuto cedere. Lei, che rideva quando mia sorella e io correvamo a cercare supporto da papà, allora fingeva di dare un castigo anche a lui, e il nostro passava in secondo piano, ma ridevamo tutti e quattro e tutto passava, tranne il castigo, quello rimaneva ma con una fetta di dolce e un bel telefilm da guardare insieme, anche se avevo dovuto dire alla mia amica che non sarei andata a casa sua.

"Che ore sono?
"Perché, devi andare da qualche parte?"

La notte ama i miei ricordi, il giorno li mescola e li sbiadisce, ma non si perdono mai.
Penso alla mia nonna/mamma, che non c'è più da tempo, a quante cose mi ha insegnato, a quanti sacrifici ha fatto per me e quanto amore ha dato. Penso a quando arrivava l'estate e dormivo a casa mia, perché la scuola era chiusa e non c'era bisogno di stare da lei. La mia felicità quando la vedevo sbucare dalla scalinata di cemento con il suo sorriso aperto. Si fermava e si accucciava leggermente per abbracciarmi, allora correvo da lei urlando a tutti "c'è la nonna" sicura tra le sue braccia, annusando il suo odore di buono e di pulito. Le chiedevo di cucinare; anche se la mamma aveva già preparato tutto, io volevo che fosse la nonna a farlo, perché le sue polpette erano più buone, perché il suo sugo era più rosso, perché m mancava, ma questo glielo avevo detto la sera prima, piangendo al telefono, e lei l'indomani della mia nostalgia spuntava sempre. Il guaio era quando a un certo orario del tardo pomeriggio preparava la sua roba per tornare a casa. Ricordo che sparivo a prendere il pigiama e la mia bambola, le mutandine pulite e, con le ciabatte ai piedi e la magliettina macchiata di marmellata o altro, tornavo di là "sono pronta, andiamo via" e mia madre mi fermava, perché ero diventata problematica da quel punto di vista, lei voleva mi abituassi a casa mia, solo che per me casa mia era quella della nonna, e in venti minuti si girava una scena che neanche nei film drammatici strappalacrime si vedeva.
Mia nonna che mi baciava di fretta e si voltava per non guardarmi straziata, io che le andavo dietro piangendo, dicendole che avrei fatto la brava, mia madre che con le lacrime agli occhi mi richiamava in casa e io che scappavo. Le parole della nonna erano sempre "se fai così però non vengo più" e i miei dovevano ricominciare tutto dall'inizio con me; cameretta ben illuminata, storie di avventure prima di dormire, lavori manuali di giorno. Il tutto per ingannare la nostalgia di una bambina che voleva solo dormire nel lettone della nonna. Fino alla volta successiva, che poi ogni tanto mi accontentavano e mi lasciavano andare con lei, succedeva sempre quando avevano da fare qualche lavoro grosso intorno alla casa, allora quando vedevo che mia madre prendeva le scarpe sapevo che avrei avuto la meglio quella sera, ma sapevo che tutto era deciso da prima. A casa mia i capricci erano sterili: ne nasceva uno, moriva e non trovava terreno fertile.

"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"

È così notte da non rileggere ciò che scrivo, ma ripenso a ciò che ricordo, parlo con le mancanze e stringo le incertezze. Di quelle, ne ho così tante da non sentirmi sola, non questa notte, e mi dispiace per chi non ha incertezze, perché sono una valida compagnia, sono una scossa, il defibrillatore del proprio essere.

È così notte da tenere la finestra aperta, sbirciando oltre il cielo, misurando la febbre, ascoltando la mancanza delle mani che mi toglievano il termometro. Un bacio sulla fronte quando era alta, altrimenti una carezza e la raccomandazione di non alzarmi così sarei stata meglio in fretta.

"Che ore sono?"
Si è fatto tardi, i ricordi sbadigliano e la scatola si riempie pian piano di nostalgia. C'è un po' di disordine, ma li riconosco tutti, li riordinerò a mente serena e fronte fresca. Domani chiamerò mia madre e arriverà quel bacio sulla fronte, anche se non le dirò che ho la febbre, così non si preoccupa. Sì, credo che domani starò meglio dopo aver sentito la sua voce.

"Che ore sono?"
È l'ora di sognare da donna, come quando ero più piccola; ci penseranno i risvegli ai ricordi.
Notti da bambina a occhi aperti e donna nel vortice dei sogni.

"Che ore sono?"
Ora dormi.

(Scritto ieri notte.  Pubblicato adesso, perché la notte è ancora lontana ed è un po' miope. Forse non se ne accorge.)






martedì 15 ottobre 2013

Rido

Cercare di ridere, senza averne voglia, è la cosa che mi riesce peggio. È capitato, per carità, anche più di una volta, e mi ha fatto male vedere che ci sono cascati tutti, e se ci hanno creduto non mi guardavano negli occhi. La risata finta credo sia più triste dell'orgasmo simulato, o se la giocano alla grande.
Mi sono anche esercitata, a ridere intendo; ho fatto due prove, come quando si fanno le smorfie allo specchio, e il risultato è stato pessimo, del resto, sono dell'idea che l'orgasmo non si debba simulare, figuriamoci una risata.
Questa cosa non piace a chi si aspetta che tu sia convincente, ma quando si è concentrati a trattenere altro, come tutta la tua attenzione su ciò che ti circonda, la risata è l'ultimo dei tuoi pensieri.
"Imparassero a fare le battute", penso, e respiro contando mentalmente.

Fumo una sigaretta e osservo la nuvola velenosa che sale, cerco di trovare una forma, come si fa con le le nubi in cielo, fossi un po' più sveglia, probabilmente ci farei sopra una poesia, ma non so scrivere poesie, sono prosaica, romantica quanto basta.
Ho il romanticismo maledetto, quello che ti colpisce in mezzo agli occhi e, non contento, torna indietro come un boomerang, al mittente.
Riesco a contemplare i tramonti da sola, se sono con qualcuno mi annoio a guardare i tramonti, perché sono gelosa delle mie bellezze e se sono con il mio uomo voglio fare l'amore, il tramonto non è romantico se sono con lui, le sue mani tra i miei capelli sono romantiche o i miei morsi sulle sue labbra, non il sole che dà la buonanotte.
Però sono romantica a modo mio, non come pensano gli altri.
È che la gente è simpaticamente sciocca a volte; se dici di essere romantica ti percula a vita, perché loro guardano i tramonti quando hanno voglia di fare l'amore, oppure per arrivare a farlo, io invece i tramonti me li vado a guardare dopo, e ci vado da sola perché in quel momento devo rivivere tutto e devo farlo da sola per essere sicura di non dimenticare qualcosa, per non essere distratta dall'odore, dal calore di un'altra persona che non mi lascerebbe augurare la buonanotte al sole mandandolo a dormire con i miei ricordi incastrati tra i suoi raggi stanchi.
Rido del tempo che passa, di quei momenti che sembrano lontani anni luce, eppure sembrava ieri.
Rido di me e con me.
Una risata vera, non un orgasmo simulato.

Vago per trovare un senso, tipo che la devo smettere di scrivere di notte, sono troppe le cose che si accavallano, e poi ho quel maledetto vizio di non finire un discorso, ma lo faccio per confondere la confusione; se raggirata, la confusione, si mette nell'ordine delle idee.

Vorrei che qualcuno mi raccontasse una storia; quando ero piccola e avevo sonno andavo in braccio a mia madre o alla nonna, e mi addormentavo ascoltando il suono della loro voce dal petto. Parlavano con gli ospiti, non capivo quello che dicevano, però raccontavano qualcosa, e mi lasciavo cullare, navigavo alla ricerca dei miei sogni e mi svegliavo nel mio lettino.
Non ho più trovato qualcuno che sapesse raccontare le storie così bene, però non chiedo loro d'inventarsele, anche per questo non fingo di ridere.

Una volta una persona mi ha detto che la vita ha rubato il mio sorriso, uno di quegli psicologi che fanno finta di conoscerti per arrivare sotto i tuoi vestiti. Ho simulato un sorriso e ho risposto che le cose non sono proprio andate così e che, in realtà, sono stata io a rubare il  sorriso alla vita. Credo non avesse capito, però mi ha risposto che sono romantica.
Fortunatamente si era fatto tardi "domani devo alzarmi presto, ci sentiamo", quelle cose così, e non ricordo se l'indomani fosse domenica, ma da una romantica non si sospettano bugie o frasi di circostanza. Da una romantica che non ride, ancora meno,

Altre persone mi hanno detto che sono troppo seria, i ciechi. Spesso rido dentro, solo un cieco non lo noterebbe, perché il cieco non può vedere i miei occhi.
Le risate sono così importanti, eppure si buttano in un'immensa cesta di giochi, anziché al riparo sulla mensola, le esternano con timbri più o meno squillanti, la risata del vecchio fumatore è quasi un rantolo, liquida e vischiosa, poi c'è quella della donna sexy, che ha diverse sfumature, dipende dall'età e dal numero di uomini a corte, si va da vocale isterica a quella forte e chiara. Mai risata grassa. Le donne sexy (ok, le chiamo gattemorte ma questo è un segreto trasparente) dicono di essere grasse mentre contano le costole e si soffermano su quella fregata all'uomo, loro hanno uno spazio in più nel costato (anche se spesso ho dubitato sul taglio orizzontale delle loro grazie nascoste) rispetto le altre donne, e ci sono uomini che hanno una costola in meno rispetto gli altri. Solo loro possono dire di essere grasse, per essere smentite, ma non fatelo mai voi. Io l'ho fatto una volta, lei era perfetta, continuava a parlare di rotolini di ciccia, e quella mattina i miei jeans mordevano i miei fianchi, ero sottovuoto e questa scultura di fronte a me continuava a parlare di ciccia. Non si calpestano le convinzioni degli altri, quindi le ho dato ragione. Posso assicurarvi che sento ancora oggi, dopo dieci anni, lo spillone che mi trafigge in tutto il corpo.
Probabilmente ridono asciutte per quello.
Poi ci sono io, che m'illumino per un attimo e concentro tutto negli occhi, ma solo per pochi, solo se c'è qualcosa da ridere, perché nella cesta in mezzo alla confusione le cose belle si rovinano.
Amo chi ride e lo fa per un motivo, dal cuore, dalla pancia e dallo sguardo; non perché glielo dicono gli altri.

"E fattela una risata!"
Esistono persone che non ti conoscono e ti chiamano tesoro, cucciola, bambolina. C'è poco da ridere.
"E fattela una risata!"
Vedo il marchio di fabbrica in fronte alla gente.
"E fattela una risata!"
Le persone credono di conoscerti perché sanno che non bevi il caffè macchiato al bar.
"E fattela una risata!"
Ho conosciuto uomini che per entrare nelle mie mutande fingevano di voler entrare nella mia testa.
"E fattela una risata!"
Io non rido, perché per ogni persona che finge, dieci stupidi s'improvvisano geni.

La cosa che temo di più sono i "Che cos'hai?" quando in realtà non ci deve per forza essere qualcosa che non vada se non ti piace una barzelletta sentita già cinque volte dalla stessa persona; e mentre tutti ridono, mi domando se soffrano di Alzheimer loro o se sia proprio stronza io, poi ricordo che siamo nell'era della gentilezza di facciata e penso che al mondo ci sarà un'altra persona come me che ascolterà per l'ennesima volta la solita barzelletta dal solito collega, e dovrà ridere, dovrà fingere un orgasmo che Sally se lo scorda, e questo mi aiuta a non fingere. Non rido, lo faccio per chi, come me, non si arrende e lo faccio per chi si rende ridicolo, gli stronzi sono gli altri  che ridono di te e non ti fanno capire che è ora di cambiare repertorio, non io; io sono quella che non ride, sono la romantica dei tramonti, mentre conto mentalmente le persone che conoscono il mio romanticismo, quello vero, quello che non ha parole ma brividi sulla pelle, occhi negli occhi e frasi spezzate a metà. Quello che lo sguardo cattura e trattiene, che mostri come un lettore blu ray, solo a chi entra, perché non basta reggerlo, si deve anche varcare la soglia di uno sguardo, e poi nuotare, senza toccare nulla. Allora sono lì i tramonti, non quelli delle 18.30. Sono romantica, ma non è questo il punto, il punto è che lo sono talmente tanto da mostrare tramonti colorati dei miei stralci di vita, all'occorrenza.
Ma la gente non lo sa, la gente vuole vedere i denti, vuole sentir nitrire una donna, e alla fine penso che fare la bambolina non sia la mia aspirazione. Sarei poco credibile.
Che poi le persone a me non risparmiano nulla, quando dissi di voler licenziare un mio dipendente a estrazione perché mi serviva l' ipad, che si dimenticano di usare per ordini e schemi, nessuno ha riso, eppure anche io ho il mio senso dell'umorismo, composto, senza strafare, apparentemente timido, a volte un po' nero, ma c'è.
Rido con le persone, non amo ridere "di", forse è per questo che non mi diverto nei gruppi che passano serate tenendosi il fianco per gli spasmi dovuti a un eccesso di ilarità, a raccontare le disavventure di qualcuno che non c'è o, se c'è, a tirarlo in mezzo per trasformarlo nel buffone di turno, e quando accade sono triste, per chi si diverte e per chi finge di farlo per paura di essere preso di mira. La risata dovrebbe essere ossigeno, complicità, divertimento puro, no bullismo; ma abbiamo davvero bisogno di felicità made in china per stare bene?

"Ma tu, non ridi mai?"
Non credo nel mai e neppure nel sempre. Rido ancora come quando ero bambina, ma i bambini non ridono quando non capiscono le cose o quando non sono sicuri ci sia qualcosa di divertente. La loro risata è la cosa più pura che si possa vedere e sentire. Un suono tondo, aperto, sussurrato e prolungato da quell'urletto che fa loro prendere fiato, in attesa di poter di nuovo liberare quell'emozione nuova, e noi che li guardiamo non possiamo fare altro che improvvisarci clown per loro, e ci impegniamo con le facce più buffe, per scaturire una risata, per farli stare bene, e non è detto che il risultato sia sempre positivo, perché è la spontaneità che comanda, l'inaspettato. Ci sono anche bambini che di fronte a un'emozione forte, come la gioia per un regalo inaspettato, scoppiano a piangere, perché non sanno gestire le emozioni, e adulti che fanno la stessa cosa, a me è successo di emozionarmi alle lacrime in tre situazioni che non dimenticherò mai. E non mi è stato chiesto "Perché non ridi?" e sono stati momenti meravigliosi.
Due di questi li custodisco nel cuore da quando ero piccola.
Ho pianto dalla gioia, lacrime silenziose e tremore trattenuto a stento, aspettavo un abbraccio che è arrivato, caldo e sicuro, mentre tutti intorno a me dicevano cose confuse "Ma che carina, guardala, piange, ma è un tesoro." e io non stavo piangendo. Avevo pianto quando mi avevano bruciato il formicaio che nutrivo con i semi di pomodoro, avevo pianto quando il cane della mia vicina aveva mangiato la mia lumaca, ma quel giorno no, non piangevo, quel giorno io ero felice, e con gli occhi pieni di lacrime cercavo qualcuno che capisse, e ho trovato il sorriso commosso di mia madre, le sue braccia spalancate e pronte a nascondermi, lei sapeva che ero felice, erano gli altri e non riconoscere i segnali, mentre le mie cugine ridevano scartando i doni di Babbo Natale io piangevo tra le braccia di mia madre lasciando lì la mia bicicletta rossa scoperta a metà, ed ero felice "Devi ridere sciocchina, guarda Francesca, mica sta piangendo lei". Incompresa dai presenti, ma felice.

Rido quando ricordo, rido quando vedo qualcosa, a mio parere, di buffo, rido con mio padre delle mie lacrime infantili, della mia disperazione mentre scappavo, urlando, da un ramarro "Scappa papà mi sta inseguendo scappa!" e piangevo mentre correvo, senza vedere che il lucertolone era scappato più spaventato di me. Rido delle battute stupide ma che non mi aspetto, rido quando rendo felice chi amo, magari si vede solo un sorriso, ma chi mi conosce sa che sto ridendo, basta guardare gli occhi.
Ogni sorriso è un risata timida che resta nascosta ad ammirare lo spettacolo, non sempre, ma rido; e lo faccio spesso.
In ogni caso, non quando me lo impongono gli altri, perché "ridere è una cosa seria".
"Rido, quando mi pare rido, quando mi gira rido e poi non rido più. " (Enzo Jannacci)








lunedì 7 ottobre 2013

Stretta

Tutta questa pioggia è sprecata se è la poltrona ad abbracciarmi.
Chissà se il rumore è lo stesso, chissà se ti domandi se io stia dormendo o meno. Io lo farei, se sapessi che hai paura del temporale, ma a te piace, e vorrei sentirlo attraverso le tue braccia, stretta da non capire dove finisca il tuono e dove cominci il cuore.
Stretta.
Stasera, più del solito, sento il freddo che un golfino non può lenire, e non posso dormire se tu non mi abbracci.
Stretta.
È solo questione di starci addosso, per non sbagliare, per non lasciare che la pelle si raffreddi e per sentirci un po' più nostri.
Stretta.
Nel tempo che non passa, nella pioggia che non bagna e nel tuo sguardo che ha fatto cadere anche l'ultimo velo.
Stretta.
Nella mano che accarezza i miei dubbi e nelle labbra che li cancellano. Nelle tue braccia e sulla tua pelle, nel mio respiro e nel nodo che mi strozza le parole.
Stretta.
Mentre un lampo illumina le mie mani, mentre tremo un po' di più, ma non è paura, è solo mancanza. Così forte da sentirmi vuota. Così intensa che se chiudo gli occhi ti sento dentro.
Stretta.

Ci sono notti che non passano mai,
e vorrei fermare l'attimo;
notti che portano il nostro marchio,
dimmelo ancora, ne ho bisogno;
notti di silenzi spezzati dai suoni del peccato,
sono tua;
mentre lasciamo che piova,
tu sei mio;
con il cuore in gola e la pelle arrossata,
mi sono persa,
senza parlare, guardando questo film, restiamo così:
Stretti.



venerdì 4 ottobre 2013

Pesci alla deriva

Oggi sono scappata. Non ce l'ho fatta a reggere senza rispondere, in genere ignoro provocazioni o altro, ma sono giorni che non riesco a fare finta di niente.
Nella giornata del Lutto Nazionale a seguito della tragedia di Lampedusa, quando tutti dovremmo essere uniti in un composto silenzio o comunque un coro armonioso di voci indignate e unite nel rispetto delle vittime e delle loro famiglie, leggo gente che si scanna, cori razzisti, retweet continui di offese, come se l'ignoranza e il male non avessero già abbastanza spazio. Ho letto addirittura gente che si "preoccupava" della visibilità che potesse avere chi usava un hashtag commemorativo per questa tragedia, pappagalli sul trespolo che hanno sempre il becco puntato, con la ciotola dei semi vuota e l'occhio nel piatto degli altri.
Sono giorni che leggo la cattiveria travestita da parole gentili, chi parla di amore, famiglia e onorevoli concetti, ma il veleno, quando c'è, deve essere sputato, altrimenti soffochi, allora continuiamo a guardare cosa fanno gli altri, quelli che nel loro piccolo usano un mezzo secondo le loro coscienze o esigenze, poi torniamo a mascherarci da teneri amanti, mariti, mogli, fidanzate padri, madri o fatine dei denti, fino a quando la bocca non si riempie ancora di amaro e allora dobbiamo mordere nuovamente.
Leggo gente che punta il dito se si fa una battuta, la voglia di saltare agli occhi nel nome di cosa? Neanche ai tempi dell'inquisizione c'erano questi bacchettoni.

Mi rilasso, scrivo, sorrido leggendo, penso e mi emoziono. Un intermezzo che inizia davvero a starmi stretto.
Ho l'incubo di controllare le interazioni.

Blocco solo chi usa Twitter per pornografia o chi disturba in maniera seriale. Per il resto cerco, nei limiti, d'ignorare. Oggi ho bloccato ben cinque persone.
Il momento più difficile è il mattino. Pellegrini che sono capitati sul tuo account per caso e lasciano una perla di vita, che se ti va bene è il solito "buongiorno", solo il primo saluto dei quattro della giornata, segue "buon pomeriggio, buona serata e buonanotte", e io mangerei l'iphone per non scrivere quello che mi passa per la testa.
Se ti va meno bene, ti ritrovi in un trenino di tre mesi prima che qualcuno ha rimesso in moto. Ovviamente non conosci neanche uno di quei vagoni, e ora che spieghi che quei saluti di gruppo ti portano via tempo, spazio e ti bloccano il cellulare, hai finito i caratteri (otto nickname, se corti, ti permettono solo di scrivere "toglietemi dal gruppo") e poi ti senti anche in colpa perché non ci stava uno "scusate, mi si blocca il cellulare" però vedi che continuano a rispondere, allora useresti quella manciata di spazio per mandarli a cagare, ma respiri a fondo, conti e ripeti di toglierti, alla terza supplica qualcuno lo capisce, fino alla volta successiva.

Se ti va ancora meno bene, trovi la persona che ti commenta il tweet dicendo quale concetto sia migliore di quello che hai appena espresso. E attenzione, non parlo di chi ha un'opinione diversa dalla tua, ben venga un confronto costruttivo, parlo di chi dice cosa tu dovresti provare in quel preciso istante. Come se io dicessi a chi ha paura dei serpenti che deve avere più paura delle api. Sono io quella che teme gli insetti, non devono esserlo per forza gli altri, e se io temo gli insetti, non possono farci niente gli altri, possono solo prenderne atto e proseguire (anche pensando "sticazzi") ma non si può rompere in nessun modo le scatole a chi esprime una propria emozione, un proprio credo, un cavolo di pensiero che magari è fugace e si sgretolerà nel giro di due ore, potete leggere, scrivere ma NON POTETE SINDACARE su ogni cosa. Fatelo sulla vostra pagina e non sporcate quella degli altri. Usate le paroline magiche "per me", a volte cancello parole e sostituisco con sinonimi più brevi per farci stare un fottutissimo "per me" proprio per non avere rotture di scatole, ma pare che la madre dei saccenti sia una gran mignotta, e non prenda la pillola.
Nel giro di tre giorni sono stata definita "Cattiva" da due persone. La prima perché ho risposto che non parlo di politica su Twitter, e in 140 caratteri, per me, è impossibile farlo, leggo e retwitto chi è più bravo di me con la sintesi, ma non riesco a parlarne, non mi piace, sarebbe retorica fatta dal divano e non fa per me. Quindi, per questo, sono una persona cattiva. Ebbene sì, direi pessima.

Il secondo oggi. Dopo tre volte che ha commentato alcune pic linkate per la buonanotte con concetti molto forzati, oggi ho controllato chi fosse questo ovetto, e noto che la sua pagina era fatta di commenti più o meno spinti, alle pic delle utenti donne, la volgarità in persona, allora gli ho chiesto di smetterla di scrivermi, anche perché da me non ci sono le figure, non linko pic personali, per mia scelta, non per nascondermi, l'ho fatto poche settimane fa per le persone che mi seguono da un po' e non conoscono la mia "brutta faccia", ho tenuto come pic sul profilo la mia fotografia per ben nove mesi, quindi non voglio certo nascondermi, sono scelte che avvengono e non devo spiegazioni, almeno per questo spero; il fenomeno di turno mi sonda tentando di usare uno stile diverso da quello della sua home, del resto non mostro culi o tette, ma continua a sfogliare le pic, a dimostrazione che guarda solo quelle e lascia commento. Ho preferito tagliare la testa al toro e chiedergli di darci un taglio, senza troppi giri di parole (la mia biografia mi rappresenta più di quanto non sembri) . Del resto, non sono interessata a uno che descrive quanto il suo arnese apprezzi questa o quella foto, e per questo sarei cattiva, giusto, sono cattiva, ma tanto.
Ciliegina sulla torta, altro ovetto che si diverte a scrivere porcate a destra e sinistra, e non scendo in particolari, dico solo che mi sono rotta. Mi sono rotta di maiali, di buonisti, puttane e frustrati, mi sono rotta di account pornografici che ti si piazzano lì con l'arnese in mano e magari ti commentano anche, in caso non li avessi notati, mi sono rotta di gente che mi segue tre volte alla settimana, se sono un numero non seguitemi, per me non siete numeri, se vi seguo è perché vi trovo interessanti, mi sono rotta di donne che si rotolano nel fango a colpi di "sei un cesso, guarda che brutta che sei, io ho il culo più sodo" (e poi pretendiamo che gli uomini ci rispettino in quanto Donne), mi sono rotta di chi ride guardando il degrado e insulta te, che di ridere non ne hai neanche un po' di voglia, mi sono rotta di vedere voci fuori dal coro che vengono oscurate da starnazzanti oche selvagge e ragli di somari con i paraocchi, e, infine, mi sono rotta di dover spiegare anche le virgole di ciò che scrivo. Sì, mi sono rotta.
Anche di chi fa del proprio stile legge, l'arroganza risiede anche e soprattutto nei modi apparentemente gentili e ho il brutto vizio di leggere oltre ciò che è scritto, chi lo chiama "tra le righe" e chi no; nella rete i pesci sono tutti insieme, finiamo sulla stessa barca, liberi di spogliarvi di scannarvi, di scrivere oscenità o altro, ma non siete e non sarete mai liberi d'imporre la vostra presenza a casa di chi non gradisce il vostro odore.
Concludo.
Molte persone si sono allontanate da Twitter, mi mancano, è come se in un naufragio su un'isola deserta qualcuno si allontanasse per andar a cercare viveri e non tornasse, tu resti con persone che ti ispirano fiducia, e altre a cui non affideresti neanche  la spazzatura da buttare, osservo chi non ha avuto la forza di continuare, nonostante usasse bene il social network, e penso che forse si erano sentiti come me oggi. Osservo persone che mi illuminano lo sguardo ogni giorno, con la positività, con risate spontanee e carezze gentili. Penso che la maggioranza sia formata da pesci che dovrebbero divorare non chi la pensa diversamente, ma chi disturba e non accetta il fatto che non siamo tutti omologati.
Tu, tu, tu, tu, tu, tu, tu ma, soprattutto io, non siamo nessuno per giudicare le emozioni degli altri, prima si smette, prima si potrà usufruire del tempo perso che impieghiamo per costruire qualcosa, almeno per noi stessi.
(Dedicato a chi ha voglia di continuare a divertirsi. Io ci provo, lasciatemelo fare.)

martedì 1 ottobre 2013

Io ti vedo

Una delle cose più difficili da fare, per me, è non vedere.
Riesco a non guardare, basta chiudere gli occhi, ma vedere è tutt'altra cosa, e io vedo; anche creando il buio intorno a me.
Già, il fatto di vedere il buio color Blu non mi aiuta in questo percorso, "pensa a un foglio bianco" mi diceva qualcuno, e io in questo foglio disegnavo un sacco di cose.
La Chicca rossa, la mia prima bicicletta, lucida e piccola; le sue rotelle da una parte "guarda papà ho imparato", poi ricordo che il foglio deve essere bianco, allora strappo tutto e mi trovo davanti un'altra pagina immacolata, le linee del disegno sono sempre più nitide, la mia collezione di gomme. C'erano i sette nani, Baffina, la foca gialla, Marmy, la grassa marmotta turchese e tante altre. Io che passavo i giorni a contarle, erano trentadue, facendo l'appello a voce alta e rispondendo cercando di dar loro una voce diversa. Ogni volta che chiamavo Pisolo sbadigliavo.
"Bianco, ho detto bianco", a occhi chiusi non si vede. Chiudi gli occhi e guarda.
Ma io vedo, anche quello che non vorrei.
E cerco d'impegnarmi un po' di più, ad occhi chiusi, come quando mi baciavi, ad occhi chiusi, come quando le tue mani percorrevano la mia pelle. Ad occhi chiusi.
Come quando avevo paura di perdermi nei tuoi.
Guardare un albero, una macchina, un uomo o una donna; sì, siamo tutti bravi, ora chiudete gli occhi, la magia si compie, e non ci sono più.
Ma io li vedo ancora.
I miei occhi hanno una vita propria, sensibili alla bellezza, non quella da guardare; i miei occhi hanno sensi propri, riconoscono la bellezza che profuma di parole colorate, di mare e sabbia umida, dei primi fiocchi di neve e di pelle calda.
Con lo sguardo assaporo la bellezza, quella che sa di frutta fresca, pesche succose, o di pane appena sfornato, di un dolce al cucchiaio, cremoso e fresco.
Il sapore di tutti i peccati che si vorrebbero ripetere ancora e ancora.

Anche questa pagina era bianca, fino a poco tempo fa. Ho chiuso gli occhi per non guardare e ho visto.
Ho visto una giornata di vento che mi spettinava i capelli, che mi faceva stringere la giacca addosso perché non c'erano braccia pronte.
Ho visto il sorriso delle persone sincere, le stesse che comprendevano i miei silenzi, o comunque riuscivano a far finta di aver capito molto bene, senza chiedere alcuna spiegazione.
Ho visto mani grandi e pelle liscia "non vale se non consideri le unghie" e, anche se misuravamo palmo contro palmo considerando la lunghezza delle mie unghie, era sempre troppo piccola la mia mano per la tua.
La maledizione di chi non guarda e intanto non smette mai di vedere, ci provi una volta e non smetti più.
Guardati dentro.
E non voglio vedermi.
Ho provato a pensare a un unicorno chiuso nella gabbia di uno zoo, ma non l'ho mai visto, e, sul mio foglio bianco, tornano a danzare luci e ombre, è tutto confuso perché sono monocromatica, ma distinguo bene ogni cosa già vista, e quando mi dicevi di chiudere gli occhi lo facevo, ma, in realtà, li stavo spalancando dentro me e vedevo le tue mani tremare, anche se facevo finta di niente.
Chiudi gli occhi.
Come se bastasse il buio, come se servisse a qualcosa spegnere la luce, come se gli occhi non fossero muniti di ricordi.
Guardami.
E Non mi resta che chiudere tutto e spegnere la testa, per colorare questo foglio.
A fissare il soffitto bianco senza guardare niente
Guardami.
A contare le sillabe rimaste sospese in aria.
Guardami.
Ad accarezzare il tuo volto lasciando che le tue labbra sfiorino le mie dita.
Guardami.
A scrivere versi che rivedrò per tutta la mia vita, ancora e ancora.
Guardami.
Mentre tutto scivola verso il mare, mentre le immagini non smettono di sorridere e tormentare, mentre il soffitto mi parla di te, mentre chiudo gli occhi per non guardarti e ti vedo.