"Perché, devi andare da qualche parte?"
No, aspetto l'alba e non vorrei fosse in ritardo; l'alba non aspetta ed è da tanto che non la vedo, che non le dico quanto sia felice di averla di fronte. Un tempo eravamo grandi amiche, l'alba e io, l'aspettavo con il mio caffè bollente in mano e restavo incantata a guardarla, con il cuore sollevato.
Accadeva quando subivo la presenza della notte, quando avevo paura di dormire e restavo sveglia nella speranza che l'alba arrivasse in tempo, con le sue sfumature color pastello e lo sbadiglio alla mano.
So che è tardi, so che dovrei dormire da almeno un'ora, facciamo due, e so anche che con la febbre non si resta svegli a piedi scalzi, però è più forte di me, e questa notte ho voglia di guardare le stelle ascoltando musica. "Fumo l'ultima e poi vado", non sarà una bugia che mi racconto in più a rovinarmi la reputazione, e che male c'è ad ascoltarsi ancora un po'.
Fuori la notte sta danzando intorno alla città che dorme, mentre mi domando se dalle tue braccia il suono ora sia più o meno melodioso, mentre penso che sarebbe una notte differente, se fossi stretta a te, allora potrebbe arrivare anche il temporale, dormirei lo stesso e sentiresti il mio cuore battere forte, vedresti i miei occhi chiusi, fingerei di dormire mentre conto il tempo che passa tra il fulmine e il tuono, ma dovrei ricominciare, perché fra le tue braccia non ci riuscirei.
Ho spento il cellulare, ho lasciato il brusio della gente fuori e penso a quando non c'erano altre anime che giocavano a dadi con la notte, forse sarebbe stato tutto più facile, forse avrei trovato il coraggio di andare a dormire e avrei imparato che le persone smettono di esistere, che la morte non si ferma a guardare quanti anni hai e quando deve raccogliere fa la conta. Forse non avrei avuto paura se il vociferare del telefonino fosse entrato a far parte della mia vita prima, ma ho imparato da sola, certo, ci ho messo un po' di più perché non mi ascoltavo e non lo dicevo di avere paura, perché le persone che amo non dovevano preoccuparsi troppo per me, non volevo che non dormissero, che non mangiassero e che tenessero i piedi rannicchiati sulla sedia per evitare che il buio li toccasse. Fingevo con chiunque, anche con me. Soprattutto con me.
Questa notte ha qualcosa di diverso, sarà la pettinatura o la voce, forse il cielo stellato le dona quel tocco di classe che la pioggia nasconde, ma quanto tempo impiegherà la notte per farsi bella? Anche per questo non posso andare a dormire senza guardarla almeno per un po'. Ci resterebbe male.
"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"
No. È che per me è rischioso andare oltre quel lasso di tempo che ancora si può chiamare "mancanza di sonno". Di notte, "Oltre" è un nome pericoloso, che non voglio sentire e non voglio guardare.
Penso ad altro, mangio le olive e penso.
Da piccola ero felice, lo ero anche quando pensavo di non esserlo, da adolescente; lo ero perché mi spiegavano le cose, non c'era mai un No fine a se stesso, neanche un Sì non meritato.
Ero felice perché costruivo una panca di legno con mio padre, e ogni volta che vado a trovarli la vedo lì. Consumata, traballante e piccola, eppure mi sembrava così grande. Sempre lucida di vernice e neanche buona per il fuoco. Mi ci siedo sopra e mio papà sorride, lo sguardo come quello di un tempo, forte di gioventù, i lineamenti no, ma da come mi guarda so che mi vede piccola e con le trecce, intenta a passare i chiodi e a usare un pezzo di leggo per battere su quelli già piantati da lui (Così sei tu a rinforzarla) e sorridiamo entrambi, mentre sorseggio un caffè, mentre parliamo di politica o del lavoro, mentre passo la mia mano su quei chiodi ben piantati dalla testa arrugginita, mentre mi regalo, idealmente, una carezza sulla manina.
Penso a mia mamma che guardava la casa nella prateria e prendeva spunto da quella famiglia semplice per sentirsi forte e regina della casa. E aveva ben tanti motivi per sentirsi tale. Lei, sposa bambina che si è sentita chiamare "mamma" quando ancora aveva lei stessa quella parola sulla bocca e il bisogno nel cuore. Lei, che ha sempre fatto la parte del generale cattivo per non farci allontanare dalla figura paterna che spesso era via (con la mamma sotto gli occhi il rapporto si recupera sempre, con papà in trasferta potrebbe rimanere l'astio) Lei, che quando dava un castigo non tornava indietro e si pentiva di averlo detto a voce alta perché sapeva che per essere credibile non avrebbe dovuto cedere. Lei, che rideva quando mia sorella e io correvamo a cercare supporto da papà, allora fingeva di dare un castigo anche a lui, e il nostro passava in secondo piano, ma ridevamo tutti e quattro e tutto passava, tranne il castigo, quello rimaneva ma con una fetta di dolce e un bel telefilm da guardare insieme, anche se avevo dovuto dire alla mia amica che non sarei andata a casa sua.
"Che ore sono?
"Perché, devi andare da qualche parte?"
La notte ama i miei ricordi, il giorno li mescola e li sbiadisce, ma non si perdono mai.
Penso alla mia nonna/mamma, che non c'è più da tempo, a quante cose mi ha insegnato, a quanti sacrifici ha fatto per me e quanto amore ha dato. Penso a quando arrivava l'estate e dormivo a casa mia, perché la scuola era chiusa e non c'era bisogno di stare da lei. La mia felicità quando la vedevo sbucare dalla scalinata di cemento con il suo sorriso aperto. Si fermava e si accucciava leggermente per abbracciarmi, allora correvo da lei urlando a tutti "c'è la nonna" sicura tra le sue braccia, annusando il suo odore di buono e di pulito. Le chiedevo di cucinare; anche se la mamma aveva già preparato tutto, io volevo che fosse la nonna a farlo, perché le sue polpette erano più buone, perché il suo sugo era più rosso, perché m mancava, ma questo glielo avevo detto la sera prima, piangendo al telefono, e lei l'indomani della mia nostalgia spuntava sempre. Il guaio era quando a un certo orario del tardo pomeriggio preparava la sua roba per tornare a casa. Ricordo che sparivo a prendere il pigiama e la mia bambola, le mutandine pulite e, con le ciabatte ai piedi e la magliettina macchiata di marmellata o altro, tornavo di là "sono pronta, andiamo via" e mia madre mi fermava, perché ero diventata problematica da quel punto di vista, lei voleva mi abituassi a casa mia, solo che per me casa mia era quella della nonna, e in venti minuti si girava una scena che neanche nei film drammatici strappalacrime si vedeva.
Mia nonna che mi baciava di fretta e si voltava per non guardarmi straziata, io che le andavo dietro piangendo, dicendole che avrei fatto la brava, mia madre che con le lacrime agli occhi mi richiamava in casa e io che scappavo. Le parole della nonna erano sempre "se fai così però non vengo più" e i miei dovevano ricominciare tutto dall'inizio con me; cameretta ben illuminata, storie di avventure prima di dormire, lavori manuali di giorno. Il tutto per ingannare la nostalgia di una bambina che voleva solo dormire nel lettone della nonna. Fino alla volta successiva, che poi ogni tanto mi accontentavano e mi lasciavano andare con lei, succedeva sempre quando avevano da fare qualche lavoro grosso intorno alla casa, allora quando vedevo che mia madre prendeva le scarpe sapevo che avrei avuto la meglio quella sera, ma sapevo che tutto era deciso da prima. A casa mia i capricci erano sterili: ne nasceva uno, moriva e non trovava terreno fertile.
"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"
È così notte da non rileggere ciò che scrivo, ma ripenso a ciò che ricordo, parlo con le mancanze e stringo le incertezze. Di quelle, ne ho così tante da non sentirmi sola, non questa notte, e mi dispiace per chi non ha incertezze, perché sono una valida compagnia, sono una scossa, il defibrillatore del proprio essere.
È così notte da tenere la finestra aperta, sbirciando oltre il cielo, misurando la febbre, ascoltando la mancanza delle mani che mi toglievano il termometro. Un bacio sulla fronte quando era alta, altrimenti una carezza e la raccomandazione di non alzarmi così sarei stata meglio in fretta.
"Che ore sono?"
Si è fatto tardi, i ricordi sbadigliano e la scatola si riempie pian piano di nostalgia. C'è un po' di disordine, ma li riconosco tutti, li riordinerò a mente serena e fronte fresca. Domani chiamerò mia madre e arriverà quel bacio sulla fronte, anche se non le dirò che ho la febbre, così non si preoccupa. Sì, credo che domani starò meglio dopo aver sentito la sua voce.
"Che ore sono?"
È l'ora di sognare da donna, come quando ero più piccola; ci penseranno i risvegli ai ricordi.
Notti da bambina a occhi aperti e donna nel vortice dei sogni.
"Che ore sono?"
Ora dormi.
(Scritto ieri notte. Pubblicato adesso, perché la notte è ancora lontana ed è un po' miope. Forse non se ne accorge.)
So che è tardi, so che dovrei dormire da almeno un'ora, facciamo due, e so anche che con la febbre non si resta svegli a piedi scalzi, però è più forte di me, e questa notte ho voglia di guardare le stelle ascoltando musica. "Fumo l'ultima e poi vado", non sarà una bugia che mi racconto in più a rovinarmi la reputazione, e che male c'è ad ascoltarsi ancora un po'.
Fuori la notte sta danzando intorno alla città che dorme, mentre mi domando se dalle tue braccia il suono ora sia più o meno melodioso, mentre penso che sarebbe una notte differente, se fossi stretta a te, allora potrebbe arrivare anche il temporale, dormirei lo stesso e sentiresti il mio cuore battere forte, vedresti i miei occhi chiusi, fingerei di dormire mentre conto il tempo che passa tra il fulmine e il tuono, ma dovrei ricominciare, perché fra le tue braccia non ci riuscirei.
Ho spento il cellulare, ho lasciato il brusio della gente fuori e penso a quando non c'erano altre anime che giocavano a dadi con la notte, forse sarebbe stato tutto più facile, forse avrei trovato il coraggio di andare a dormire e avrei imparato che le persone smettono di esistere, che la morte non si ferma a guardare quanti anni hai e quando deve raccogliere fa la conta. Forse non avrei avuto paura se il vociferare del telefonino fosse entrato a far parte della mia vita prima, ma ho imparato da sola, certo, ci ho messo un po' di più perché non mi ascoltavo e non lo dicevo di avere paura, perché le persone che amo non dovevano preoccuparsi troppo per me, non volevo che non dormissero, che non mangiassero e che tenessero i piedi rannicchiati sulla sedia per evitare che il buio li toccasse. Fingevo con chiunque, anche con me. Soprattutto con me.
Questa notte ha qualcosa di diverso, sarà la pettinatura o la voce, forse il cielo stellato le dona quel tocco di classe che la pioggia nasconde, ma quanto tempo impiegherà la notte per farsi bella? Anche per questo non posso andare a dormire senza guardarla almeno per un po'. Ci resterebbe male.
"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"
No. È che per me è rischioso andare oltre quel lasso di tempo che ancora si può chiamare "mancanza di sonno". Di notte, "Oltre" è un nome pericoloso, che non voglio sentire e non voglio guardare.
Penso ad altro, mangio le olive e penso.
Da piccola ero felice, lo ero anche quando pensavo di non esserlo, da adolescente; lo ero perché mi spiegavano le cose, non c'era mai un No fine a se stesso, neanche un Sì non meritato.
Ero felice perché costruivo una panca di legno con mio padre, e ogni volta che vado a trovarli la vedo lì. Consumata, traballante e piccola, eppure mi sembrava così grande. Sempre lucida di vernice e neanche buona per il fuoco. Mi ci siedo sopra e mio papà sorride, lo sguardo come quello di un tempo, forte di gioventù, i lineamenti no, ma da come mi guarda so che mi vede piccola e con le trecce, intenta a passare i chiodi e a usare un pezzo di leggo per battere su quelli già piantati da lui (Così sei tu a rinforzarla) e sorridiamo entrambi, mentre sorseggio un caffè, mentre parliamo di politica o del lavoro, mentre passo la mia mano su quei chiodi ben piantati dalla testa arrugginita, mentre mi regalo, idealmente, una carezza sulla manina.
Penso a mia mamma che guardava la casa nella prateria e prendeva spunto da quella famiglia semplice per sentirsi forte e regina della casa. E aveva ben tanti motivi per sentirsi tale. Lei, sposa bambina che si è sentita chiamare "mamma" quando ancora aveva lei stessa quella parola sulla bocca e il bisogno nel cuore. Lei, che ha sempre fatto la parte del generale cattivo per non farci allontanare dalla figura paterna che spesso era via (con la mamma sotto gli occhi il rapporto si recupera sempre, con papà in trasferta potrebbe rimanere l'astio) Lei, che quando dava un castigo non tornava indietro e si pentiva di averlo detto a voce alta perché sapeva che per essere credibile non avrebbe dovuto cedere. Lei, che rideva quando mia sorella e io correvamo a cercare supporto da papà, allora fingeva di dare un castigo anche a lui, e il nostro passava in secondo piano, ma ridevamo tutti e quattro e tutto passava, tranne il castigo, quello rimaneva ma con una fetta di dolce e un bel telefilm da guardare insieme, anche se avevo dovuto dire alla mia amica che non sarei andata a casa sua.
"Che ore sono?
"Perché, devi andare da qualche parte?"
La notte ama i miei ricordi, il giorno li mescola e li sbiadisce, ma non si perdono mai.
Penso alla mia nonna/mamma, che non c'è più da tempo, a quante cose mi ha insegnato, a quanti sacrifici ha fatto per me e quanto amore ha dato. Penso a quando arrivava l'estate e dormivo a casa mia, perché la scuola era chiusa e non c'era bisogno di stare da lei. La mia felicità quando la vedevo sbucare dalla scalinata di cemento con il suo sorriso aperto. Si fermava e si accucciava leggermente per abbracciarmi, allora correvo da lei urlando a tutti "c'è la nonna" sicura tra le sue braccia, annusando il suo odore di buono e di pulito. Le chiedevo di cucinare; anche se la mamma aveva già preparato tutto, io volevo che fosse la nonna a farlo, perché le sue polpette erano più buone, perché il suo sugo era più rosso, perché m mancava, ma questo glielo avevo detto la sera prima, piangendo al telefono, e lei l'indomani della mia nostalgia spuntava sempre. Il guaio era quando a un certo orario del tardo pomeriggio preparava la sua roba per tornare a casa. Ricordo che sparivo a prendere il pigiama e la mia bambola, le mutandine pulite e, con le ciabatte ai piedi e la magliettina macchiata di marmellata o altro, tornavo di là "sono pronta, andiamo via" e mia madre mi fermava, perché ero diventata problematica da quel punto di vista, lei voleva mi abituassi a casa mia, solo che per me casa mia era quella della nonna, e in venti minuti si girava una scena che neanche nei film drammatici strappalacrime si vedeva.
Mia nonna che mi baciava di fretta e si voltava per non guardarmi straziata, io che le andavo dietro piangendo, dicendole che avrei fatto la brava, mia madre che con le lacrime agli occhi mi richiamava in casa e io che scappavo. Le parole della nonna erano sempre "se fai così però non vengo più" e i miei dovevano ricominciare tutto dall'inizio con me; cameretta ben illuminata, storie di avventure prima di dormire, lavori manuali di giorno. Il tutto per ingannare la nostalgia di una bambina che voleva solo dormire nel lettone della nonna. Fino alla volta successiva, che poi ogni tanto mi accontentavano e mi lasciavano andare con lei, succedeva sempre quando avevano da fare qualche lavoro grosso intorno alla casa, allora quando vedevo che mia madre prendeva le scarpe sapevo che avrei avuto la meglio quella sera, ma sapevo che tutto era deciso da prima. A casa mia i capricci erano sterili: ne nasceva uno, moriva e non trovava terreno fertile.
"Che ore sono?"
"Perché, devi andare da qualche parte?"
È così notte da non rileggere ciò che scrivo, ma ripenso a ciò che ricordo, parlo con le mancanze e stringo le incertezze. Di quelle, ne ho così tante da non sentirmi sola, non questa notte, e mi dispiace per chi non ha incertezze, perché sono una valida compagnia, sono una scossa, il defibrillatore del proprio essere.
È così notte da tenere la finestra aperta, sbirciando oltre il cielo, misurando la febbre, ascoltando la mancanza delle mani che mi toglievano il termometro. Un bacio sulla fronte quando era alta, altrimenti una carezza e la raccomandazione di non alzarmi così sarei stata meglio in fretta.
"Che ore sono?"
Si è fatto tardi, i ricordi sbadigliano e la scatola si riempie pian piano di nostalgia. C'è un po' di disordine, ma li riconosco tutti, li riordinerò a mente serena e fronte fresca. Domani chiamerò mia madre e arriverà quel bacio sulla fronte, anche se non le dirò che ho la febbre, così non si preoccupa. Sì, credo che domani starò meglio dopo aver sentito la sua voce.
"Che ore sono?"
È l'ora di sognare da donna, come quando ero più piccola; ci penseranno i risvegli ai ricordi.
Notti da bambina a occhi aperti e donna nel vortice dei sogni.
"Che ore sono?"
Ora dormi.
(Scritto ieri notte. Pubblicato adesso, perché la notte è ancora lontana ed è un po' miope. Forse non se ne accorge.)