mercoledì 16 dicembre 2020

Chissà se sarà Natale

- Silvy sentissi che vento c'è qui; e il freddo, Silvy, il freddo è quello asciutto di quando c'erano i nonni e facevamo i salami, ma tu eri piccina. Ti ricordi, Silvy?

Mamma e i tentativi di rispolverare la sua giovinezza e la mia infanzia, mamma e il sorriso nella voce come non ascoltavo da tempo, mamma che incalza il passato a farsi sotto e, in una manciata di secondi, decido di farmi prendere per mano lasciandomi accompagnare in quella baracchetta che per l'occasione si trasformava in macelleria.
L'odore del nonno paterno era qualcosa che avrei riconosciuto a occhi chiusi. Una mescolanza tipo terra arsa dal sole, tabacco ed erba bagnata. Quando faceva merenda e, con il suo pane e formaggio beveva due dita di vino, odorava anche di mosto.
In quei giorni freddi di Gennaio, l'odore di pancetta e di prosciutto non riuscivano a mascherare le note di cuore.
Ricordo che mia sorella e mia cugina scappavano arricciando il naso, io volevo entrare, mamma cercava di mandarmi a giocare, il nonno rideva e tirava fuori uno dei suoi coltellini a serramanico, il mio preferito era quello minuscolo, bianco madreperlato e il nonno mi raccontava sempre la stessa storia, quella della principessa che possedeva quel coltello, una storia così ricca di particolari,  sempre gli stessi, mai una virgola diversa, tanto che, nel corso degli anni, quasi ho pensato fosse tutto reale. Facendomi spazio sulla sedia di legno accanto a lui, mi piazzava sotto al naso una spessa fetta di carne e mi faceva vedere come tagliarla, i pezzi erano grandi, troppo, ma era l'unico modo per non farmi tagliare le dita, poi lui o mia madre o mio padre li ripassavano e li trasferivano nella grande madia.

-Chi misura la carne dosa anche il sale. Stesso pugno, stessa unità di misura.

E ancora oggi che il nonno non c'è più, non esistono proporzioni né calcoli matematici. Chi conta le manciate di carne a due mani, dosa con un pugno di sale, senza sbagliare. 

A pochi giorni da Natale guardo il cielo grigio e ascolto ancora mia madre.

- Magari arriva la neve, ricordi quando siamo rimasti senza acqua perché si era ghiacciata nei tubi e il cancello di casa era murato dai cumuli? Avevamo l'elettricità, per fortuna, e mangiavamo la carne tagliata a listarelle con peperoncino e olive nere. 
Tu la chiamavi la carne a salamino.

Il telefono e la percezione di una vicinanza fittizia.

-Ti ricordi, Silvy, quando sei scappata fuori con il cucchiaio da portata perché volevi aiutare papà a spalare la neve? Com’era arrabbiato quel giorno, quando ti ha visto arrivare con me dietro che gesticolavo con il cappello e la sciarpa di lana, però, ha smesso all’istante d’imprecare contro il tempo e si è illuminato di un sorriso che solo un padre innamorato riesce a fare. Come eravamo giovani, com’era bello vedere il nostro futuro nel vostro sguardo e nei vostri passi traballanti, sono volati questi anni, Silvy, siamo stati fortunati, forse tu non ricordi le nevicate di questo angolo di mondo, e la galaverna, la galaverna la ricordi, Silvy?

Oh, mamma, come posso dimenticare il mio angolo incantato, ero la Principessa di papà, la mamma delle mie bambole e la regina dell’inverno. Vivevo in un paesaggio glaciale. Gli alberi con i rami spogli erano rivestiti di un ghiaccio color diamante così magico da sentirsi invincibili.
Con la galaverna non si usciva per tanto tempo quanto con la neve, il paesaggio si lasciava ammirare dai vetri appannati della finestra della cucina, rigido e austero, mentre tu, mamma, spuntavi con i calzettoni pesanti fatti dalla nonna con gli scarti della lana dei maglioni, sì, quelli che pungevano i piedi ed erano fatti di tanti colori diversi che Missoni levati.

-Chissà, Silvy, se farà la neve a Natale.


Mentre un velo d’incertezza incrina le sue parole, mentre chiede a  mio padre di aprire le persiane della sala, mentre abbassa di un tono la voce, quando lui si allontana, mia mamma mi sussurra che loro  staranno buoni buoni anche soli,” faremo Natale un’altra volta”.
Ma io ricordo la videochiamata di qualche mattina fa, ricordo mio padre, il suo sguardo rivolto altrove quando mia mamma diceva la stessa cosa, quando in lei vedevo  la forza interiore fare a pugni con la mano che tremava  versando  il caffè, in papà  vedevo la paura e  la rassegnazione di un uomo con il domani incerto, e le aspettative  alte.
Chissà se a Natale nevicherà, chissà Se Natale.


lunedì 6 novembre 2017

Cartolina dal ciglio

Cara mamma,

è da tanto che non ti scrivo, da quelle letterine imposte dalla maestra, copiate e ricopiate per colpa di una cancellatura di troppo o di una sbavatura colorata che faceva così disordinato, e il disordine, lo sai, a Suor Gisella non piaceva. Lei ci dettava l'amore in rima, mamma, e io dovevo amarti così, a piccoli balzi, impacciata, come un colibrì. Visto che disastro? Proprio non ci riuscivo. Io voglio amarti come mi hai insegnato tu, ansiosa, preoccupata, apprensiva e sì, diciamocelo mamma, anche un po' nevrotica, seppur amorevole e presente. Attenta.
In rima no.
Cara mamma, finalmente è arrivato un Novembre familiare, non freddo come quelli dei proverbi della nonna, ma grigio abbastanza da sentirmi un po' più viva. Non so se te l'ho detto, ma quest'estate mi ha messo in ginocchio, sono stata male mamma, ma non potevo dirlo a te, non come avrei voluto io, perché se c'è una cosa che ho capito di te, è che tu lotti sempre per qualcosa o qualcuno che non sia tu, ed è questa la tua forza e la tua fragilità, in questo ci somigliamo abbastanza. Ora che l'estate è passata vivo nel terrore che questo inverno voli via in fretta, tanto da non riuscire a trattenere la condensa delle parole urlate al vento tagliente, tanto da ritrovarmi in un riverbero giallo che non mi rispecchia, ma che mi tiene prigioniera dentro l'effetto morgana che mi solca il viso.
Sono passati alcuni mesi, la mia app dice che manca poco a Natale, e quest'anno lo sento poco. Scherzo sulla neve che non arriva, sui doni e sui film, ma volevo dirti che al telefono non puoi vedere lo sguardo serio, quasi assente, di una donna delusa. Una volta mi hai raccontato che le persone ti cercano solo quando stanno male e di quando non sentivi le colleghe, amiche o cugine, perché stavano bene, poi tornavano quando dovevano annunciare guai e disgrazie e tu eri sempre lì, pronta ad ascoltare, fino a quando hai esaurito la tua energia, allora sono scomparse tutte. Una volta mi hai raccontato della tua attenzione a non annoiare gli altri con i tuoi problemi, tu che hai sempre avuto la delicatezza di non pesare sulle persone vicine, figuriamoci sugli estranei, e avrei voluto dirti che ho imparato da te queste lezioni, tanto da sembrare forte e competente, come se ci credessi davvero ai miei "andrà tutto bene" mentre quella paura sottile che tutto crolli, mi vibra sotto i piedi.
Sabbia.
Cara mamma, Novembre è arrivato, ho acceso i termosifoni e fuori piove, no, non scrivo per parlarti del tempo, volevo dirti che vivo nel terrore tu possa stare peggio di così, che sono un'arrogante del cazzo, ma è tutta scena, e sono stanca di elargire risposte; le persone vogliono consigli, le risposte invece non piacciono, sono dirette, come l'aria del mattino dei Novembre dei proverbi della nonna. Cara mamma, ho ricominciato ad avere paura di sognare, vorrei chiederti di raccontarmi i tuoi di sogni, ma ho paura anche dei sogni degli altri, vorrei chiederti di non dormire, potresti ascoltarmi parlare di quando m'insegnavano ad amarti in rima, io che sono cresciuta amandoti così, come un dipinto astratto, nato dall'emozione più nascosta del suo pittore. Vorrei ascoltarti ricordare e accarezzare la giovinezza nel tuo sguardo, per una notte intera, forse due, per poi addormentarmi accanto a te e potermi sentire ancora un po' piccola; quel tanto da rimandare le responsabilità, fino alla prossima estate, fino al grigio dell'orizzonte osservato dal vetro appannato del tempo.
Lascia stare la clessidra, mamma, lascia ferma la sabbia e raccontami un altro proverbio Novembrino.


mercoledì 2 agosto 2017

Estate, mi domando

Più passano gli anni e più mi domando come facessi a dormire così, appiccicata a mia nonna, a mia sorella, a mia mamma, a mio papà o con tre peluche, mentre fuori le cicale facevano festa e Giuseppe piantava i pali della vigna a tempo del frinire insistente.
La fronte, il collo e i capelli madidi, mentre l'estate soffiava il suo respiro, bruciando sotto la pelle, sfocando i sogni di quel sonnellino pomeridiano "così poi andiamo a prendere il gelato, quando ti svegli".
Ancora mi domando come facessi a dormire e svegliarmi sorridente, nella mia maglietta bianca, con i miei slippini a righe rosse un po' sbiadite, sorridente, nonostante il caldo e le cicale insolenti. Un sorriso a dispetto dei problemi dei grandi e della loro fretta, ma una promessa è sempre stata una promessa e io avevo dormito. Un sorriso per il gelato fragola e fior di latte, perché al cioccolato non mi piaceva e loro lo sapevano.
Ancora mi domando come facessi, quando nei locali pubblici non c'era aria condizionata e fumavamo tutti insieme. Estate e inverno, anche nelle mezze, ora che ci penso. Quelle paglie bruciate di fretta guardando verso la porta, ché se fosse entrato qualche conoscente spione sarebbero stati guai. Quando il sole ci baciava in spiaggia e non volevo più dormire con nonna, mamma, sorella, papà né peluche, quando non osavo dormire tra braccia estranee, ma disegnavo con la mente come potesse essere, d'estate, durante i pomeriggi al mare a fingere che l'acqua fosse troppo fredda per nascondere i brividi, mentre il sole ci bruciava lentamente. Mi domando come facessimo, quando nessuno diceva di bere tanto, lentamente sì, ma mai tanto. Io le ricordo tutte le mie estati, noi che viviamo in città di mare abbiamo sempre fatto i conti con la solitudine degli inverni e la nostalgia delle labbra salate, fatte di promesse sciolte nella schiuma delle onde. Noi che siamo cresciute in città di mare abbiamo una canzone per ogni persona che si è fermata ad ascoltare quello che siamo, quando ancora era tutto spontaneo, quando ancora gli scogli ci nascondevano e le sirene arrossivano.
E mi domando come facciano, adesso, senza un'estate da poter ricordare al buio della stanza in una sera di metà settembre, mentre il lenzuolo copre le spalle baciate dall'ultimo sole della stagione, senza l'attesa del postino e di una cartolina che ti strapperà un sorriso e una punta di gelosia di tuo padre.
Estate diversa, di locali freschi e istantanee di plastica, di caldo esterno ed emozioni confezionate, niente scogli signori o il mondo non saprà mai quanto sia bassa la notorietà. Mentre suona un allarme che azzittisce una cicala, mi domando perché.

mercoledì 23 novembre 2016

Ab imo pectore

Un po' come accade in quei film, quando lei torna nella vecchia casa ormai disabitata da tempo e con la chiave sotto al vaso di coccio, quello vecchio e sbeccato nell'angolo della veranda. Lei si guarda intorno e si fissa sul pavimento color grigio cemento che fa capolino, forse un po' sbiadito, forse un po' irregolare, ma pare che al ragno sembri una reggia, mentre continua a tessere, tessere, tessere e far brillare l'angolo dello scalino che porta al viottolo dell'albero di susine.
L'aria intorno è un tutt'uno con le lastre di porfido, gli alberi hanno abbassato le armi spogliandosi di ogni inutile fronzolo. Lei guarda le foglie macerate dalla pioggia, controllando il verso del vento e la direzione delle nuvole; con il naso insù, arricciato per il puzzo di natura morta, ricordando quel rospo pieno di vermi e l'odore di pioggia di decenni consumati e sbiaditi.
A questo punto lei, e dico quella di quei film, dovrebbe voltare leggermente la testa, attirata dal cigolio sinistro di quel vecchio dondolo che un tempo aveva accolto parenti e amici, l'orgoglio dell'intera famiglia, con l'orecchio teso per ascoltare le risate e il chiacchiericcio sommesso di mamma con le amiche. Un'istantanea a colori così vera che sembra quasi di sentire il tepore del pavimento sotto i piedi scalzi, il ronzio della fresatrice, qualche staccionata più in là, e il profumo di limone provenire dalla brocca di vetro appannato sopra il tavolino in vimini, quello accanto alle poltroncine abbinate, anch'esse orgoglio di tutta la famiglia, finite chissà dove. Mentre il dondolo lamenta la solitudine e la vecchiaia, quando, se solo potesse parlare, darebbe fiato a quell'agonia inflitta dal tempo, atmosferico e non, raccontando tutte le capriole viste e fatte nella stanza delle maschere.
Chissà se anche gli oggetti vecchi e consunti hanno una loro memoria; forse tattile, forse fotografica; e lei rabbrividisce sotto l'occhio severo dell'annaffiatoio arrugginito. Sembra l'uomo di latta alla ricerca di un cuore, pare voglia quello della ragazza, che ora porta le sue mani al petto e si china per spostare il vaso e prendere la chiave. La stringe nel pugno chiuso e nell'aria si mescola l'odore di ferro arrugginito, simile a quello del sangue.
Un po' come accade in quei film, quando lei gira la chiave, varca la soglia e, nella penombra nascosta di quelle mura, trova drappi ovunque, tranne alle finestre chiuse che devono fare il loro lavoro e filtrare luce; un po' come quei risvegli pigri, un po' come quei ritorni inevitabili, quelli che sai di essere sempre lì ad aspettarti, quelli che fanno trovare caffè pronto e colori alla mano e quelli che hanno lasciato adagiare la coltre di polvere, ospitando ragni e formiche indaffarate. Ritorni estivi, con l'odore della polvere calda che prende alla gola. A questo punto, lei, e dico quella di quei film, porta la mano davanti alla bocca, coprendo anche il naso, e sale le scale guardando un raggio di sole filtrare dalle imposte, soffiando sul passamano della ringhiera per vedere la polvere di stelle danzare nel fascio di luce teso come il dito di Dio. Ed è in quella sbarra che lei si ritrova, ogni volta che ritaglia il tempo per sé, ogni volta che sfoglia una o più pagine.
Quando le crea, invece, tutto prende colore intorno, e le verande brillano di un verde vivo e il profumo nell'aria è più fresco.
È nel fascio di luce che danzano le parole, i ricordi, le emozioni, le cose pensate e mai dette. Le vede lungo i giudizi, le vede bere limonata con i piedi scalzi sul dondolo comodo e accogliente; ed è dal piano di sopra che si rende conto di quanto tempo sia passato tra un silenzio e una rinuncia, ed è per questo che, ogni volta che torna, lei, e dico quella come le donne di quei film, spalanca tutto e si affaccia dal piano alto dei miei pensieri; ché al pianoforte ancora non ci sono arrivata a togliere il telo.
Ed eccomi qui, come in quei film, io, casa disabitata e spiraglio da dove escono i pensieri a fare due passi in una giornata autunnale qualsiasi che profuma di verde decomposto, con l'aria tiepida che prende alla gola e i cioccolatini nell'armadietto. Nessun dondolo e nessun profumo di limone; solo il cielo grigio, l'aria calda e la tazza del caffè vuota. Sul fondo un simbolo cinese di qualche tipo che non riesco a decifrare, potrei improvvisare, giusto per lasciar uscire qualcosa a sgranchirsi le gambe, potrebbe essere un drago che tiene la principessa chiusa nella torre, potrebbe essere una principessa che ha rapito il drago nella speranza si trasformi in principe, non tanto azzurro quanto tiepido.
Mi affaccio in me e, senza sporgermi troppo, scosto il telo pesante che ricopre il vecchio pianoforte, quello che non suono da tempo, penso a una parola, la scrivo e la osservo volteggiare, mentre i tasti impolverati si abbassano e si alzano, come il respiro della nonna che faceva il riposino pomeridiano, come la musica di quei morbidi giochi per bambini, uno di quelli profumati, con la cordicella, e magicamente le parole danzano di fronte al mio sguardo bambino, invisibili e anche un po' scomposte.
Ed è così che sto bene, noncurante degli occhi che osservano il vuoto apparente dei miei pensieri che sputano e tossiscono polvere.
E mi sporgo in me, dall'alto di una giornata tiepida e grigia, aggrappata alla ringhiera arrugginita, per guardarmi ancora una volta dentro, intenta a far danzare pensieri che di diventare parole ancora non la intendono.







venerdì 8 aprile 2016

Giudizi Universali

Ho ripreso in mano quelle pagine, con la musica nelle orecchie e l'assenza della paglia tra le dita, forse per questo non volevo più guardarle, forse per questo non le sentivo più mie. Un tempo la notte era rumorosa e mi teneva sveglia, le parole si rincorrevano in testa e sentivo lo scalpiccio disordinato dei pensieri, tanto da coprire quello dei tasti, tanto da scorrere davanti agli occhi, con le note di una canzone sotto la pelle e la nuvola ingannevole nell'aria. Poi mi sono voluta più bene e ho smesso. Le parole si sono ammutolite e i miei pensieri mi guardavano in cagnesco. Se vi dicono che smettere di fumare sia difficile mentono, se vi dicono che sia bellissimo mentono, se vi dicono che ci si senta meglio mentono. La gente mente, noi siamo predisposti o meno, di più o per niente, a dare ascolto alle menzogne, anche tu, tu che ora mi stai leggendo sei predisposto a scorrere parole più o meno vere, una cosa è certa, è la mia verità del momento questa, e dico che smettere di fumare è uno schifo, non riprendo perché non posso, ma la voglia non passa. Neanche dopo più di un anno e mezzo.
Ho ripreso quelle parole, alcuni mesi fa, quando avevo fatto pace con l'astinenza, quando la notte e il giorno non avevano quella gran differenza e le ore si somigliavano tutte. Dovevo terminare qualcosa, perché tutto è iniziato per scherzo, perché quando ho cominciato ero più serena e perché non potevo lasciare una parte di me in pasto alla paura e all'ansia. Il bello della fantasia è che riesce a partorire senza avvisaglie, apri la diga e scrivi, disegni, descrivi, ti ascolti e ti estranei, ti racconti e metti un po' di te addosso a personaggi estranei che ti assomigliano più di quanto ti mostri lo specchio. Ho ripreso in mano quelle pagine e le ho plasmate a mia necessità, abusando di loro, violando i desideri più nascosti e mostrando angoli poco illuminati di una me stessa, che non ero io. Non dico sia stato facile, ma se li addossi a qualcuno che non sia tu sembra che a te non sia successo, che a te non piaccia quello e che tu non lo faresti mai, perché quella non sei tu. Tu narri, disegni e mostri ciò che la fantasia porta in grembo, sculacci quella parte di te un po' sgualcita che non sei tu, perché si chiama diversamente, affinché respiri e riempia i polmoni di vita, ricordando a te stessa di respirare tranquilla, perché tanto a te non è successo quello e continui a ripetertelo, per evitare fraintendimenti, come se l'occhio di chi legge sia l'occhio di Dio, come se ogni cosa scritta sia una parte di te deceduta, come se ogni cosa pubblicata sia la resurrezione, pensieri in attesa di giudizio. Allora ti ripeti che non credi, così non temi qualcuno che non esiste e quando scrivi ti convinci che tu stia parlando sola, così Dio non ti guarda; ché tutti la fanno facile, "Sei brava, sei scarsa, scrivi bene, scrivi male, sei una bella persona, sei pessima, sei, sei, sei" come se, al di fuori della grammatica, ci fosse un modo giusto o sbagliato di scrivere, come se gli stati d'animo non fossero di passaggio, come se io non detestassi i numeri pari, ma ho ripreso in mano quelle pagine e le ho portate a termine, così non sono più, ma sette. 

lunedì 11 gennaio 2016

La scheggia di un sogno








È stato tutto così strano, apro Twitter, leggo la mia TL e sorrido a qualche buongiorno più originale e frizzante del solito, butto l'occhio sulla solita lagnosa stizzita che ce l'ha con il mondo e spera da una vita che qualcuno le chieda barlumi, valuto spesso di smettere di leggerla, poi ricordo che  scrive anche pensieri  che apprezzo, ed è su quelli che mi concentro, quando è in vena e non si accorge di tutti gli altri dimentica di essere avvelenata. Capito sulla home di chi vado a cercare. Scrivo due battute senza senso apparente, come spesso faccio appena accedo a quel pantano di anime, poi vedo passare la notizia della morte di David Bowie, ci clicco sopra, senza un attimo di esitazione, e noto che proviene dall'account ufficiale. Quello verificato.
Primo brivido.
Cerco in rete, sul sito neanche l'ombra di un raffreddore, google tace tragedie e recensisce il suo ultimo album, quello che ancora non ho avuto tempo d'imparare per intero. Torno su twitter e chiedo a chi ha linkato quella notizia come possa, David, essere morto ieri senza uno straccio di notizia.
Ragazzi, che vi piaccia o meno, stiamo parlando di David Bowie, affacciatosi sulle scene decenni or sono, facendo tanto di quel casino mediatico che non poteva essersene andato così, piano e in sordina. E volevo la smentita, subito.
Mi risponde che è stato confermato da Sky, torno sul web, digito in inglese questa volta, nulla e nessuno ne parla. Trovo come primo sito la notizia della Bufala sulla morte di Bowie e cazzo, non mi ero accorta di tenere il fiato sospeso, copio il link della pagina e torno su twitter, riporto alla ragazza che ha passato la notizia, "non ci credo", dico, più a me che a lei e dopo un po' vedo tutte le news in rete, il TG5 in sottofondo dà la stessa notizia, senza usare il condizionale, quel condizionale dei giornalisti che ti fa pensare "ok, adesso arriva la smentita".

"David Bowie è morto/Si è spento all'età di 69.../...nella notte/... eclettico/Duca Bianco/Ziggy.../... un camaleonte.../... Bowie è morto."

Ero poco più di una bambina, guardavo Video Show, un programma quotidiano di video musicali, lo incrociavo spesso con i suoi capelli colorati e la pelle chiara. La mia amica aveva paura di lui, io ascoltavo la sua voce così, così umana che non potevo temere qualcosa, Beh, ho definito la voce di David Bowie "umana" siamo matti, lo so, ma già a quell'età ascoltavo i gherigli dentro al guscio. Sono cresciuta con zii che ascoltavano Musica, pane e Bowie, Genesis e Gabriel, amici loro che sembravano usciti dagli schermi tv, e io li osservavo, ammirata e silenziosa. Ascoltavo musica e mi commuovevo. Quell'eterno controcanto nella mia testa, mai azzittito, che mi faceva pizzicare gli occhi, il tono basso che andava a cozzare con tutte le notizie frammentarie sui suoi gusti sessuali che passavano sui giornalini da ragazze ribelli che, intorno ai tredici anni, leggevo in camera mia. E quando ero ragazzina bastava dire "è bisex" per continuare ad amare un cantante e sperare di poter scappare via con lui. Ma a me non importava quello. 
Il primo articolo letto aveva fatto sì che io dovessi tenere questo amore molto nascosto. La data di nascita di David Bowie, 8 Gennaio 1947, mia mamma è nata il 7 Febbraio 1947, e David era addirittura più vecchio di mia mamma di un mese. Non potevo confessare a nessuno il mio amore per David, potevo però limitarmi a cantare le sue canzoni, scrivere stralci di storie sul diario e tradurmi i testi, oh sì, senza capirci molto, lo confesso, ma a tredici anni vuoi solo farti portare via dall'alieno, se nasconde una voce umana. Dentro c'era il fuoco, io lo sentivo. Non solo dentro David.
David Bowie è la cotta adolescenziale che non mi è mai passata. Gli anni passavano, anche per me, alla velocità della luce e senza sconti. Da sempre in poi. Ho visto molti cantanti dal vivo, ho assistito a tanti concerti, ho intervistato molti artisti per la radio dove lavoravo. David Bowie è sempre stato il mio sospiro e posto vacante. Mi mancava per molti aspetti: mai visto un suo live, mai avuto la fortuna d'intervistarlo, mai sentito il suo profumo stringendogli la mano e dandogli due baci sulla guancia. Mi sono limitata a cantarlo, ascoltando quella sua canzone tre volte di seguito e ogni volta che lo faccio, ancora sorrido.


Oggi.
È morto David Bowie, rimbalzano i messaggi di cordoglio in rete, di chi lo ascoltava, di chi lo cantava, di chi lo amava segretamente e di chi lo conosceva poco.
È morto David Bowie, c'è chi vuole fare silenzio, ma di fatto non lo fa perché è impegnato a dare stilettate a chi scrive di essere dispiaciuto.
È morto David Bowie, grazie a tutti quelli che mi fanno sapere che non mi avrebbe "portato le pasterelle la domenica a casa" come credo che non lo avrebbe fatto qualsiasi altro artista per nessuno di noi, ma cos'è la morte, se non le schegge di quel sogno di cristallo andato in frantumi, quello che ti faceva pensare, magari, di poterlo un giorno incontrare davvero o di avere ancora tempo per chiedere scusa, per fare una telefonata, per incrociare gli sguardi e sorridere. Ma quando siamo fuori da un coro diverso dal nostro, a quanto pare, tendiamo a diventare cinici oltre la ragione.
È morto David Bowie e dobbiamo stare attenti a cosa preferiamo, a non avere qualche nozione musicale extra, per non disturbare chi ha voglia di fregarsene mandando a monte tutto senza essere andati a lezione di "come fare per fregarsene davvero".

È morto David Bowie. Ho capito che non era immortale, come chiunque, ok, va bene, ma scusatemi se per me è stato un brutto risveglio. È morto David Bowie, ho appena scoperto che non avrò più la fortuna nè possibilità di vederlo live su un palco. È morto David Bowie e ora so davvero che non succederà mai di mangiare le paste della domenica con lui e, tra le altre cose, mi mancherà il sogno mentre ascolterò le sue canzoni, una di esse per tre volte consecutive. È morto David Bowie e non è come se fosse morto un familiare, come accade spesso quando ascolti la musica di un artista che muore, è come se la mia parte più nascosta sia defunta, ogni sfaccettatura dei miei momenti più difficili affidata a lui e ora se li è portati con sé. Lui e l'alirno del controcanto, quello che sapeva. È morto David Bowie e scusate se non ho voglia di leggervi.

È morto David Bowie, se vi dà fastidio il cordoglio, alzate il cappello, chiudete quelle ciabatte che chiamate bocche e passate oltre. In silenzio, possibilmente; stupide sguattere della vostra ignoranza.


R.I.P. 10-01-2016

sabato 9 gennaio 2016

Senza titolo

Ho voglia di scriverti un silenzio, perché ogni scusa è buona per non parlare e, se ancora ti domandassi come dar voce a un silenzio, la risposta è una: Scrivilo.

Ho voglia di scriverti un'emozione, di mettere una mano dentro e rovistare senza guardare e senza scegliere, bella o brutta, tanto il pavimento è sporco, lascia che coli.
Ho voglia di scriverti una paura, una di quelle che vivono sotto al mio letto e aspettano che metta giù un piede, uno qualsiasi, giusto o sbagliato.
Ho voglia di scriverti un ricordo, uno di quelli che mi fanno pizzicare gli occhi e guardare lontano, davanti a me.
Ho voglia di scriverti un desiderio, almeno uno da quinta liceo e non da terza media; di come sono e di come mi vedono, ma l'ho già dimenticato.
Ho voglia di scriverti dei passi sulla ghiaia e di quella notte senza luna, di quando sono andata via e non sono ancora ritornata.
Ho voglia di scriverti, perché di parlare sono stanca; ho voglia di scriverti di come sto quando sento questa canzone, del perché io l'ascolti tre volte e cosa vedo quando alzo il volume.
Ho voglia di scriverti di quando non andavo a letto e non partiva la macchina, di quando accostavo con la testa sul volante e respiravo forte. Ho voglia di scriverti di cosa vedo quando non guardo e di tutti i sorrisi che ho ucciso sul nascere; tutto quello che vorresti sapere, come a lasciar cadere gli indumenti, uno a uno, restando nudi e senza tasche, con le mani addosso.
Ho voglia di scriverti un peccato, di sceglierlo con cura dal catalogo delle cose irripetibili e restare ferma a guardare mentre te lo fai girare sugli occhi, nella mente e sulle labbra.
Ho voglia di scriverti una storia, c'era una volta, due, tre… e poi addormentarci, ma non troppo abbracciati, perché devo essere libera di alzarmi a guardare la notte.
Ho voglia di scriverti di quando non dormo o di quando mi sveglio, di quando mi commuove la colonna sonora ma non il film e delle mie manie più stupide.
Ho voglia di scriverti di quando giocavo con il fuoco senza essermi mai bruciata o della corda che ho tirato e si è spezzata; di me, di quando cucino e della scelta degli ingredienti. Del sorso di birra mentre soffriggo o grattugio; del profumo di lievito e di quello del burro, della pelle calda sotto il sole e dei capelli bagnati di pioggia novembrina.
Ho voglia di scriverti a piedi scalzi e con la musica che vibra nel cuore e in bocca. Hai mai corso con le note, urlando nella mente?
Di sesso ruvido e concetti teneri, ho voglia di scriverti che non credo nei ruoli predefiniti né nel fascino della disperazione, che non cedo alla lusinga della solitudine, finché esiste qualcuno che m'immagina mentre sogno.
Ho voglia di scriverti ancora, senza un filo logico, di ridere fino alle lacrime, fino a sciogliere le parole, pensieri blu che scorrono come volti deformati allo specchio e dimenticarli, come non fossimo mai esistiti.
Ho voglia di scriverti, spettabile ed esimio, per darmi un tono, per ascoltarlo e sfumarlo, vorrei scriverti cose sciocche come le colpe attribuite a me stessa, prima che lo facessero gli altri. Ho voglia di scriverti  perché taccio quando c'è confusione e perché ho paura dei rumori inaspettati; di quanto io detesti chi vuole accorciare le distanze o di come mi arrabbi sottovoce.
Ho voglia di scriverti in ginocchio, mentre ricordo come ci si rialza.
Ho voglia di scriverti e non è escluso che io lo faccia, forse un giorno, forse in un silenzio, dopo una corsa con le note, urlando nella mente. Forte.