Dovrei prendermi per un orecchio e portarmi a dormire, ma è arrivata la pioggia e ha voglia di compagnia.
Vorrei offrirle una birra e farla sedere, ascoltare dei suoi viaggi e delle cose che ha visto, vorrei chiederle che effetto fa accarezzare la chioma degli alberi, là dove osa solo il sole, o domandarle come si sente quando accarezza un leone. Come ci si sente a sdraiarsi sul binario aspettando passi il treno? E dimmi, pioggia, come hai fatto a conquistare il fuoco senza scottarti?
È arrivata la pioggia, vestita dei colori autunnali e pronta a giocare con chiunque abbia voglia di lei.
Senza ombrello la guardo, senza fretta mi tocca, e non posso credere che abbia usato la stessa passione per toccare anche te. Guardo la pioggia e vorrei graffiarla, lei mi sfida e mi accarezza, mentre penso che sia passata prima da te, mentre scivola sulle mie labbra e la lascio fare. Tra qualche ora sarà da te, ti ho appena mandato un bacio.
domenica 29 settembre 2013
sabato 28 settembre 2013
Cocci
"Ridurre le delusioni evitando le aspettative." (Auto-citazione)
Non ho tatuaggi, se mai dovessi farne uno, sceglierei questo.
Per non dimenticare ciò in cui credo.
Il mattino è alla porte e io spaccherei la notte, perché i piatti a quest'ora fanno rumore.
Invece rompo il silenzio, per non scoppiare; come se avesse senso, come se fosse tutto normale.
"Tu sei forte", mi dicono, e io mi piego sempre più, senza darlo a vedere.
Il mattino è alle porte e non mi sono pettinata, è un nuovo giorno, e io non sono pronta e non ne ho più voglia, in fondo, mi sono rotta d'incollare i pezzi. La porcellana finisce nella pattumiera.
venerdì 27 settembre 2013
Autunni dimenticati
Si legano i ricordi all'estate o alle festività invernali dimenticando, spesso, le stagioni di transito. La primavera, tanto tanto, se la cava e fa la sua carrellata tra le prime cerette, la corsa per rimediare quell'insufficienza o le giornate che si allungano. E l'autunno?
Il grande incompreso dell'anno, eppure i miei ricordi legati a questa stagione sono così tanti da poter scrivere giornate intere, senza tralasciare nulla, neanche quella maglia a maniche lunghe che mi faceva grattare le braccia, perché quando ero piccola l'arrivo dell'autunno portava la magia della sparizione di ogni abito estivo, mica aveva tempo da perdere mia madre, rientrava al lavoro anche lei, e il cambio degli armadi era sacrosanto. Non guardava troppo il meteo, ma il calendario e le giornate di lavoro che l'avrebbero fatta rientrare a casa con il buio, senza contare che il meteo prima calzava con il calendario (solo un modo diverso per dire "non ci sono più le mezze stagioni", una vera ovvietà), quindi l'impatto con le calze e le maglie a manica lunga era meno traumatico. Le calzature, invece, erano più dure da digerire. Dopo mesi passati a camminare scalza, diventavano trappole per topi e le vesciche dovevano rimarginarsi prima di iniziare la scuola. Questione di sopravvivenza.
Dei miei autunni ricordo i fine settimana passati con i nonni paterni; cresciuta con la mia nonna preferita (inutile girarci intorno, quella materna era una mamma-nonna, gli altri erano i nonni. L'affetto c'era, ma era diverso) che, durante il periodo scolastico, per esigenze organizzative, vedeva mia sorella e me ospiti fisse a casa sua e il fine settimana si tornava da mamma e papà, prima però si passava sempre a salutare i nonni paterni. Ci fermavamo il venerdì sera a cenare con loro ("però mamma, io qui non ci dormo perché non c'è un buon odore") e, generalmente, la domenica venivano loro a casa dei miei per passare la giornata con noi. La nonna paterna era la classica vecchietta asciutta e piccola. In genere i bambini hanno una strana concezione delle misure, sembra tutto più grande di ciò che è e, se a sei o sette anni vedevo la nonna piccola, sicuramente doveva essere stata tascabile. Consapevole del fatto che io ero quella che piangeva come una fontana perché mi mancava l'altra nonna e che cercavo di assumere un atteggiamento da nipotina adorabile, sotto minaccia e occhiatacce di mia madre che non voleva far esplodere un caso diplomatico con la suocera, cercavo sempre di correre da lei con proposte di giochi costruttivi.
"Nonna, nonna, vieni che ti lavo i capelli e ti metto il profumo."
Del resto mi era stato vietato di parlare del suo odore, non di trovare un rimedio. Purtroppo lei era molto permalosa e rispondeva prontamente di non averne bisogno, con quella punta di acidità che non riusciva sempre a contenere, neanche con una bambina. Il nonno era più allegro, non ho mai conosciuto il nonno materno, quindi la figura del nonno era la sua. Indiscutibile.
Lui mi ha insegnato a giocare a carte, a tirare con la fionda, a fare la gara a chi riusciva a togliere più crosticine dalle gambe (quando cadevo e sbucciavo le ginocchia mi faceva smettere di piangere dicendomi che da lì a pochi giorni, lo avrei battuto nella gara a farsi uscire il sangue, ed io ero felicissima. Un po' meno mia madre) e, sempre mio nonno, mi faceva fumare (per finta e per sentire mia madre urlare un po'). I nonni paterni erano molto più vecchi della mia nonna Rosa, si lamentavano spesso per i dolori e per ogni acciacco dovuto all'età, la nonna sottolineava sempre che l'altra nonna sicuramente non aveva di questi problemi e, ingenuamente, rispondevo di no, ma che lei aveva anche la pelle più liscia ed era più forte perché mi prendeva in braccio per giocare o mi rincorreva per darmi uno scappellotto, riuscendoci in pochissimo tempo. Allora, ferita nel suo orgoglio di nonna, cercava di rimediare raccontandomi una storia. Mia nonna era bravissima a raccontare storie. Principesse, regine e Principi? Macchè, sono cresciuta a streghe che rapivano bambine, solo le femmine, diavoli tentatori e la morte con la falce che fece morire un'intera foresta in poche ore per trovare un fuggiasco e poi farlo soffrire fino alla dipartita. L'ascoltavo rapita, lei faceva anche le voci cattive e mimava le parole con l'espressione giusta per ogni personaggio. Successivamente c'era il purgatorio. Facevo passare la notte in bianco a tutta la famiglia perché avevo paura. Fu così che finì anche l'era delle storie della nonna (e comunque Zio Tibia era un principiante rispetto lei) ma le domeniche autunnali dovevano essere impiegate in qualche modo.
Un po' per l'età, un po' perché in estate i nonni avevano troppo caldo per uscire da casa, il periodo in cui li vedevo di più era proprio l'autunno.
Quando pioveva durante la settimana e il weekend regalava giornate di sole, si andava per funghi. La nonna era vecchia, si lamentava per i dolori, diceva sempre di non farcela a fare niente ma, quando lontana dai miei genitori, andava dritta come un fuso e avrebbe seminato anche le gazzelle. Lei trovava un sacco di funghi, anche io, solo che erano velenosi e tiravo su tutto quello che vedevo. Una volta li misi nel suo cestino e si arrabbiò molto, quindi non mi portò più per funghi.
Il bosco era vicino a casa, ricordo quanto basso sembrasse il cielo, l'unica parte di azzurro che intravedevo dalle cime degli alberi fitti e neri, con il sole negli occhi e i rami che mi graffiavano le gambe "Guarda dove metti i piedi e resta nel sentiero pulito o le bisce faranno festa." Bastava questo a riportarmi con i piedi al suolo. Ricordo le foglie marcite e calpestate, l'odore di muffa e tutto quel muschio intorno che mi faceva venire voglia di togliere gli stivaletti per sentire la sua morbidezza sotto i piedi.
Degli autunni passati ricordo ogni colore bruciato, dall'arancione delle foglie vecchie a quelle di mezza età che sfoggiavano ancora qualche striatura di verde. Ricordo la mia voglia di raccogliere le ghiande, mi piaceva la loro forma; nonna mi diceva che non servono a niente, allora ricordo di aver pensato che sarebbe stato bello avere un maiale e poterle raccogliere per un motivo valido, allora, mi limitavo a disegnarle e colorarle, con i toni dell'autunno, una foglia arancione e gialla, un legnetto con attaccate due bellissime ghiande panciute. Peccato davvero non aver avuto un maiale a cui portarle.
Fallito miseramente anche il tentativo di raccogliere funghi, con me, la nonna decise di provare con le castagne. Di alberi, vicino a casa mia, ce n'erano decine, "ma nel bosco ci sono quelle più grandi e sane" e, ancora una volta, mi trovavo a correre tra la natura stanca, cercando di aprire un riccio e togliere le castagne senza bucarmi le dita. A volte capitava di scivolare e piantarsi le spine nel deretano, ma erano i rischi dell'avventura. Quando con noi veniva anche il nonno, intagliava sempre un bastone per far rumore, affinché le bisce scappassero (niente vipere, anche se per me erano tutti serpenti) e con lui ci divertivamo di più. Il nonno fingeva di perdersi o si nascondeva. Con la nonna dovevamo stare anche attente a nasconderci dietro un albero con la maglietta rossa e sventolando le mani. Lei fingeva sempre il colpo al cuore e poi raccontava a mio padre che eravamo impossibili "Soprattutto la piccola, non la tieni ferma neanche con il guinzaglio e deve toccare tutto." E io pensavo che da lì a poco sarebbe iniziata la scuola e "addio nonna, devo fare i compiti" tanto il bosco non si copriva in autunno, lo avrei visto anche da casa e comunque mi ci avrebbe portato papà. Con lui potevo prendere le ghiande e toccare anche i lombrichi con i bastoncini, l'unica cosa che non potevo fare era far finta di perdermi, questo dopo che mi sono persa davvero, ma è un'altra storia.
I miei autunni passati profumano di libri di testo, colori a matita e inchiostro. Di gomme e altri articoli da cancelleria, di quaderni e cuoio. Ricordo la gioia nell'infilare il naso tra le pagine dei quaderni e dei libri nuovi, un odore diverso rispetto i romanzi, entrambi gradevoli, ma diversi. E mentre il paesaggio intorno a me sembrava un unico e interminabile tramonto, patteggiavo con mia mamma la scelta del diario o dello zaino. Il dilemma era sempre quello: Robusto o bello, un dramma. Riuscivamo ad accordarci: lei mirava appositamente al diario più brutto del secolo, io puntavo i piedi, allora faceva finta di darmela vinta per avere potere assoluto sul resto. Si tornava a casa con il buio intorno al mondo, la proiezione di ombre minacciose e nell'aria l'odore di bruciato, qualcuno aveva ammucchiato le foglie secche.
Mentre la mamma preparava la cena, mia sorella e io ammiravamo il bottino scolastico.
"Aspettate, devo fasciare i libri così non si sciupano."
Ma sentire l'odore non era sciupare, era una piacevole sensazione che trattenevo, sapendo che da lì a poche settimane quel profumo sarebbe svanito lasciando spazio alla mancanza di voglia di alzarsi e, men che meno, di fare i compiti.
I miei autunni passati profumano di caldarroste, dita scottate e nere; rivedo la vecchia padella forata e la nonna che incideva le castagne,
"Metti giù quel coltello, ché ti tagli"
Si aspettava un pomeriggio grigio come quello di oggi per accendere il fuoco e mi dovevano anche tenere lontana da esso, vista la mia predisposizione a incendiare tutto (e non scherzo), quindi mi limitavo a guardarlo rapita. Ho sempre trovato la bellezza del fuoco irresistibile, in tutte le sue forme. Oggi maneggio con cura fiamme differenti e, apparentemente, meno pericolose. Ma non per questo bruciano meno, io questo lo so.
Il tavolo pieno di castagne, spine e foglie; per terra il cestino un po' sgangherato e, in un angolo del tavolo, un foglio con disegnato sopra ricci e ghiande (so che non si possono mangiare, ma le amo ancora oggi), qualche colore abbandonato qua e là, dimenticato per lasciarmi distrarre dalla nonna-mamma che, velocissima, riempiva la padella.
Autunni di scintille e profumi mai uguali.
"Ecco, stai lontana, ché scotta ora la padella"
E, mentre con destrezza afferrava il manico avvolto in uno straccio vecchio, guardavo le castagne danzare in aria per poi cadere tra piccole scintille. La gioia dentro, i pugni chiusi e l'acquolina in bocca.
"Nonna mi sono tagliata, ma non fa niente." Mentre stringevo forte il dito senza il coraggio di guardare.
Ne sono passati parecchi di autunni, più di quanti riesca a contenere, ognuno con odori diversi, i colori sempre quelli, finché i miei occhi hanno voluto ammirarli, ma le distrazioni sono sempre dietro l'angolo. Ricordo gli autunni della pre-adolescenza.
Andavo a comprare il diario, dopo aver consultato la mia compagna di classe e avere optato, insieme, per quello più consono alla moda del momento. Non avevamo tempo da perdere e le cose da comprare erano tante. Inclusi i trucchi.
Fare la cresta sui soldi delle "spese necessarie" per farci entrare dentro il fard o la matita nera per occhi era diventata una necessità. La mamma non doveva saperlo, perché alle medie ancora non era tempo per truccarsi, non da casa; allora compravo il necessario per sentirmi grande al supermercato e non in profumeria.
Autunni di profumi di cosmetici a buon mercato e di sole in polvere, per quando i segni dell'estate mi avrebbero abbandonata.
La sera, a casa, mia madre fasciava i libri di testo in sala mentre io, in cameretta, tenevo tra le dita la scatoletta rotonda, preziosa, profumata, dalla spugnetta ancora pulita, a parte quel piccolo lembo intinto per provare la tonalità sulla mano, e non vedevo l'ora d'impallidire per usarla.
Autunni di piccole donne vissute che ostentavano la sicurezza della conoscenza, ma portavano dentro l'esperienza del bosco.
Mi fermo qui. Gli autunni successivi sono pagine di vita piene di errori e risate, di finte tragedie e ribellioni. Tutto nella norma. Tutto in una stagione che pian piano è stata messa nel dimenticatoio. Come la stanchezza di una foglia che si stacca dall'albero, in silenzio, senza che qualcuno la trattenga.
Il grande incompreso dell'anno, eppure i miei ricordi legati a questa stagione sono così tanti da poter scrivere giornate intere, senza tralasciare nulla, neanche quella maglia a maniche lunghe che mi faceva grattare le braccia, perché quando ero piccola l'arrivo dell'autunno portava la magia della sparizione di ogni abito estivo, mica aveva tempo da perdere mia madre, rientrava al lavoro anche lei, e il cambio degli armadi era sacrosanto. Non guardava troppo il meteo, ma il calendario e le giornate di lavoro che l'avrebbero fatta rientrare a casa con il buio, senza contare che il meteo prima calzava con il calendario (solo un modo diverso per dire "non ci sono più le mezze stagioni", una vera ovvietà), quindi l'impatto con le calze e le maglie a manica lunga era meno traumatico. Le calzature, invece, erano più dure da digerire. Dopo mesi passati a camminare scalza, diventavano trappole per topi e le vesciche dovevano rimarginarsi prima di iniziare la scuola. Questione di sopravvivenza.
Dei miei autunni ricordo i fine settimana passati con i nonni paterni; cresciuta con la mia nonna preferita (inutile girarci intorno, quella materna era una mamma-nonna, gli altri erano i nonni. L'affetto c'era, ma era diverso) che, durante il periodo scolastico, per esigenze organizzative, vedeva mia sorella e me ospiti fisse a casa sua e il fine settimana si tornava da mamma e papà, prima però si passava sempre a salutare i nonni paterni. Ci fermavamo il venerdì sera a cenare con loro ("però mamma, io qui non ci dormo perché non c'è un buon odore") e, generalmente, la domenica venivano loro a casa dei miei per passare la giornata con noi. La nonna paterna era la classica vecchietta asciutta e piccola. In genere i bambini hanno una strana concezione delle misure, sembra tutto più grande di ciò che è e, se a sei o sette anni vedevo la nonna piccola, sicuramente doveva essere stata tascabile. Consapevole del fatto che io ero quella che piangeva come una fontana perché mi mancava l'altra nonna e che cercavo di assumere un atteggiamento da nipotina adorabile, sotto minaccia e occhiatacce di mia madre che non voleva far esplodere un caso diplomatico con la suocera, cercavo sempre di correre da lei con proposte di giochi costruttivi.
"Nonna, nonna, vieni che ti lavo i capelli e ti metto il profumo."
Del resto mi era stato vietato di parlare del suo odore, non di trovare un rimedio. Purtroppo lei era molto permalosa e rispondeva prontamente di non averne bisogno, con quella punta di acidità che non riusciva sempre a contenere, neanche con una bambina. Il nonno era più allegro, non ho mai conosciuto il nonno materno, quindi la figura del nonno era la sua. Indiscutibile.
Lui mi ha insegnato a giocare a carte, a tirare con la fionda, a fare la gara a chi riusciva a togliere più crosticine dalle gambe (quando cadevo e sbucciavo le ginocchia mi faceva smettere di piangere dicendomi che da lì a pochi giorni, lo avrei battuto nella gara a farsi uscire il sangue, ed io ero felicissima. Un po' meno mia madre) e, sempre mio nonno, mi faceva fumare (per finta e per sentire mia madre urlare un po'). I nonni paterni erano molto più vecchi della mia nonna Rosa, si lamentavano spesso per i dolori e per ogni acciacco dovuto all'età, la nonna sottolineava sempre che l'altra nonna sicuramente non aveva di questi problemi e, ingenuamente, rispondevo di no, ma che lei aveva anche la pelle più liscia ed era più forte perché mi prendeva in braccio per giocare o mi rincorreva per darmi uno scappellotto, riuscendoci in pochissimo tempo. Allora, ferita nel suo orgoglio di nonna, cercava di rimediare raccontandomi una storia. Mia nonna era bravissima a raccontare storie. Principesse, regine e Principi? Macchè, sono cresciuta a streghe che rapivano bambine, solo le femmine, diavoli tentatori e la morte con la falce che fece morire un'intera foresta in poche ore per trovare un fuggiasco e poi farlo soffrire fino alla dipartita. L'ascoltavo rapita, lei faceva anche le voci cattive e mimava le parole con l'espressione giusta per ogni personaggio. Successivamente c'era il purgatorio. Facevo passare la notte in bianco a tutta la famiglia perché avevo paura. Fu così che finì anche l'era delle storie della nonna (e comunque Zio Tibia era un principiante rispetto lei) ma le domeniche autunnali dovevano essere impiegate in qualche modo.
Un po' per l'età, un po' perché in estate i nonni avevano troppo caldo per uscire da casa, il periodo in cui li vedevo di più era proprio l'autunno.
Quando pioveva durante la settimana e il weekend regalava giornate di sole, si andava per funghi. La nonna era vecchia, si lamentava per i dolori, diceva sempre di non farcela a fare niente ma, quando lontana dai miei genitori, andava dritta come un fuso e avrebbe seminato anche le gazzelle. Lei trovava un sacco di funghi, anche io, solo che erano velenosi e tiravo su tutto quello che vedevo. Una volta li misi nel suo cestino e si arrabbiò molto, quindi non mi portò più per funghi.
Il bosco era vicino a casa, ricordo quanto basso sembrasse il cielo, l'unica parte di azzurro che intravedevo dalle cime degli alberi fitti e neri, con il sole negli occhi e i rami che mi graffiavano le gambe "Guarda dove metti i piedi e resta nel sentiero pulito o le bisce faranno festa." Bastava questo a riportarmi con i piedi al suolo. Ricordo le foglie marcite e calpestate, l'odore di muffa e tutto quel muschio intorno che mi faceva venire voglia di togliere gli stivaletti per sentire la sua morbidezza sotto i piedi.
Degli autunni passati ricordo ogni colore bruciato, dall'arancione delle foglie vecchie a quelle di mezza età che sfoggiavano ancora qualche striatura di verde. Ricordo la mia voglia di raccogliere le ghiande, mi piaceva la loro forma; nonna mi diceva che non servono a niente, allora ricordo di aver pensato che sarebbe stato bello avere un maiale e poterle raccogliere per un motivo valido, allora, mi limitavo a disegnarle e colorarle, con i toni dell'autunno, una foglia arancione e gialla, un legnetto con attaccate due bellissime ghiande panciute. Peccato davvero non aver avuto un maiale a cui portarle.
Fallito miseramente anche il tentativo di raccogliere funghi, con me, la nonna decise di provare con le castagne. Di alberi, vicino a casa mia, ce n'erano decine, "ma nel bosco ci sono quelle più grandi e sane" e, ancora una volta, mi trovavo a correre tra la natura stanca, cercando di aprire un riccio e togliere le castagne senza bucarmi le dita. A volte capitava di scivolare e piantarsi le spine nel deretano, ma erano i rischi dell'avventura. Quando con noi veniva anche il nonno, intagliava sempre un bastone per far rumore, affinché le bisce scappassero (niente vipere, anche se per me erano tutti serpenti) e con lui ci divertivamo di più. Il nonno fingeva di perdersi o si nascondeva. Con la nonna dovevamo stare anche attente a nasconderci dietro un albero con la maglietta rossa e sventolando le mani. Lei fingeva sempre il colpo al cuore e poi raccontava a mio padre che eravamo impossibili "Soprattutto la piccola, non la tieni ferma neanche con il guinzaglio e deve toccare tutto." E io pensavo che da lì a poco sarebbe iniziata la scuola e "addio nonna, devo fare i compiti" tanto il bosco non si copriva in autunno, lo avrei visto anche da casa e comunque mi ci avrebbe portato papà. Con lui potevo prendere le ghiande e toccare anche i lombrichi con i bastoncini, l'unica cosa che non potevo fare era far finta di perdermi, questo dopo che mi sono persa davvero, ma è un'altra storia.
I miei autunni passati profumano di libri di testo, colori a matita e inchiostro. Di gomme e altri articoli da cancelleria, di quaderni e cuoio. Ricordo la gioia nell'infilare il naso tra le pagine dei quaderni e dei libri nuovi, un odore diverso rispetto i romanzi, entrambi gradevoli, ma diversi. E mentre il paesaggio intorno a me sembrava un unico e interminabile tramonto, patteggiavo con mia mamma la scelta del diario o dello zaino. Il dilemma era sempre quello: Robusto o bello, un dramma. Riuscivamo ad accordarci: lei mirava appositamente al diario più brutto del secolo, io puntavo i piedi, allora faceva finta di darmela vinta per avere potere assoluto sul resto. Si tornava a casa con il buio intorno al mondo, la proiezione di ombre minacciose e nell'aria l'odore di bruciato, qualcuno aveva ammucchiato le foglie secche.
Mentre la mamma preparava la cena, mia sorella e io ammiravamo il bottino scolastico.
"Aspettate, devo fasciare i libri così non si sciupano."
Ma sentire l'odore non era sciupare, era una piacevole sensazione che trattenevo, sapendo che da lì a poche settimane quel profumo sarebbe svanito lasciando spazio alla mancanza di voglia di alzarsi e, men che meno, di fare i compiti.
I miei autunni passati profumano di caldarroste, dita scottate e nere; rivedo la vecchia padella forata e la nonna che incideva le castagne,
"Metti giù quel coltello, ché ti tagli"
Si aspettava un pomeriggio grigio come quello di oggi per accendere il fuoco e mi dovevano anche tenere lontana da esso, vista la mia predisposizione a incendiare tutto (e non scherzo), quindi mi limitavo a guardarlo rapita. Ho sempre trovato la bellezza del fuoco irresistibile, in tutte le sue forme. Oggi maneggio con cura fiamme differenti e, apparentemente, meno pericolose. Ma non per questo bruciano meno, io questo lo so.
Il tavolo pieno di castagne, spine e foglie; per terra il cestino un po' sgangherato e, in un angolo del tavolo, un foglio con disegnato sopra ricci e ghiande (so che non si possono mangiare, ma le amo ancora oggi), qualche colore abbandonato qua e là, dimenticato per lasciarmi distrarre dalla nonna-mamma che, velocissima, riempiva la padella.
Autunni di scintille e profumi mai uguali.
"Ecco, stai lontana, ché scotta ora la padella"
E, mentre con destrezza afferrava il manico avvolto in uno straccio vecchio, guardavo le castagne danzare in aria per poi cadere tra piccole scintille. La gioia dentro, i pugni chiusi e l'acquolina in bocca.
"Nonna mi sono tagliata, ma non fa niente." Mentre stringevo forte il dito senza il coraggio di guardare.
Ne sono passati parecchi di autunni, più di quanti riesca a contenere, ognuno con odori diversi, i colori sempre quelli, finché i miei occhi hanno voluto ammirarli, ma le distrazioni sono sempre dietro l'angolo. Ricordo gli autunni della pre-adolescenza.
Andavo a comprare il diario, dopo aver consultato la mia compagna di classe e avere optato, insieme, per quello più consono alla moda del momento. Non avevamo tempo da perdere e le cose da comprare erano tante. Inclusi i trucchi.
Fare la cresta sui soldi delle "spese necessarie" per farci entrare dentro il fard o la matita nera per occhi era diventata una necessità. La mamma non doveva saperlo, perché alle medie ancora non era tempo per truccarsi, non da casa; allora compravo il necessario per sentirmi grande al supermercato e non in profumeria.
Autunni di profumi di cosmetici a buon mercato e di sole in polvere, per quando i segni dell'estate mi avrebbero abbandonata.
La sera, a casa, mia madre fasciava i libri di testo in sala mentre io, in cameretta, tenevo tra le dita la scatoletta rotonda, preziosa, profumata, dalla spugnetta ancora pulita, a parte quel piccolo lembo intinto per provare la tonalità sulla mano, e non vedevo l'ora d'impallidire per usarla.
Autunni di piccole donne vissute che ostentavano la sicurezza della conoscenza, ma portavano dentro l'esperienza del bosco.
Mi fermo qui. Gli autunni successivi sono pagine di vita piene di errori e risate, di finte tragedie e ribellioni. Tutto nella norma. Tutto in una stagione che pian piano è stata messa nel dimenticatoio. Come la stanchezza di una foglia che si stacca dall'albero, in silenzio, senza che qualcuno la trattenga.
A volto armato
Di questo istante amo ogni mio singolo turbamento celato dietro l'espressione corazzata, sguardo diretto e schietto, e dentro, il caos più totale. Ma questa notte mi piace così, come quando ti sfido per gioco e non sembra che mi stia sciogliendo, abbasso il viso per paura che si possa vedere il cuore pulsare, e il gioco si trasforma lentamente, le labbra lasciano morire il sorriso addosso, e le mani stringono come se dovessimo svanire da un momento all'altro.
(non andare)
E riaprire gli occhi, solo per un attimo, per trovare i tuoi che mi spogliano dalla corazza invincibile che mi contraddistingue, ma che vacilla ogni volta che mi abbracci.
(e chi si muove)
Persa tra le tue braccia mi sono ritrovata nelle tue mani, sempre loro, la mia dannazione, il mio voglio, devo, ancora.
(fino a quando non ti faccio capitolare)
Le minacce sono promesse che parlano dalla gabbia e trovano il modo di evadere, da un sorriso, da uno sguardo o una carezza.
Le minacce sono un gioco senza regole, ciascuno le sue ed entrambi vincitori.
(sai di buono)
E intanto le mie mani trovano la strada fra i tuoi capelli e sulla tua pelle calda.
(restiamo così)
In una stanza di sussurri, tra i muri di parole sconnesse che si frantumano sulla tua spalla.
E non voglio ascoltarmi, non voglio capire; lasciami perdere, ché si sta bene qui, anche se non parlo più, anche se mi batte forte il cuore e tu mi guardi, allora trovo la mia corazza, quella apparente che hai buttato giù da tempo, la indosso e ti sfido ancora, per gioco, giusto per ricominciare ridendo, con le labbra che fanno morire di nuovo il sorriso addosso a noi, divoratori di brividi.
(non andare)
E riaprire gli occhi, solo per un attimo, per trovare i tuoi che mi spogliano dalla corazza invincibile che mi contraddistingue, ma che vacilla ogni volta che mi abbracci.
(e chi si muove)
Persa tra le tue braccia mi sono ritrovata nelle tue mani, sempre loro, la mia dannazione, il mio voglio, devo, ancora.
(fino a quando non ti faccio capitolare)
Le minacce sono promesse che parlano dalla gabbia e trovano il modo di evadere, da un sorriso, da uno sguardo o una carezza.
Le minacce sono un gioco senza regole, ciascuno le sue ed entrambi vincitori.
(sai di buono)
E intanto le mie mani trovano la strada fra i tuoi capelli e sulla tua pelle calda.
(restiamo così)
In una stanza di sussurri, tra i muri di parole sconnesse che si frantumano sulla tua spalla.
E non voglio ascoltarmi, non voglio capire; lasciami perdere, ché si sta bene qui, anche se non parlo più, anche se mi batte forte il cuore e tu mi guardi, allora trovo la mia corazza, quella apparente che hai buttato giù da tempo, la indosso e ti sfido ancora, per gioco, giusto per ricominciare ridendo, con le labbra che fanno morire di nuovo il sorriso addosso a noi, divoratori di brividi.
giovedì 26 settembre 2013
Chiedilo alla luna
Quanti silenzi mancano per concludere questa notte?
Quante le ore che dovrei dormire?
Non guardo più il soffitto, non voglio sdraiarmi, non posso.
Guardo oltre e resto ferma, come quando sono di fronte al mare, come se.
Quanti vuoti per arrivare al muro?
Quanti sorrisi crepati prima di essere me?
Anche la luna è venata, per questo è fredda; e vorrei toccarla con un dito per scoprire se fa ancora male, ma è nascosta dalle nuvole, mi guarda e penso che forse vorrebbe toccare me per sapere di cosa sono fatta, se fa male e se m'illumino, ma non ha il coraggio di uscire.
Resto immobile, luna nascosta.
Accarezzo le mie paure, luna ferita.
Mentre brucio l'ultima prima di andare a dormire e non vorrei abbandonare questo cielo nascosto, non vorrei nascondermi a esso; e penso a questo mentre mi faccio più piccola, ma non abbastanza da inventare un nome alle stelle.
E penso a cosa, ma non rispondo.
Lscio che scorrano i titoli di coda di questa giornata, anche se siamo già a domani e ieri è finito. Ecco un buon motivo per andare a dormire, chiudere ufficialmente ieri, e la luna lo sa, per questo resta sveglia.
Ripasso tutto prima di dormire, conosco le battute a memoria, dal Buongiorno distratto a quello sorridente, nascondendo la luna dietro le lenti scure, schiacciandola dentro, c'è posto, sono una persona lunatica e lunare, ma dipingo il sole sulla faccia per nascondere la luna nel cuore.
La gente non lo sa, la gente non sa mai niente e se glielo chiedi sa tutto, ma io non sono tutto e non voglio esserlo, mi basta poter mostrare la luna, senza pretenderla e senza chiederla.
Ripasso ancora, ma la so, sarò promossa anche oggi e poi andremo a festeggiare, la luna e io, ovunque i segreti ci porteranno, in silenzio, abbracciate, e potrò togliere il sole dal viso, e potrò dire che ogni tanto fa male, però non dovrebbe servire, perché la luna lo sa, ma non dice niente.
martedì 24 settembre 2013
d(')istanti
La cosa più difficile è sempre lasciare le tue braccia, anche se le porto con me fino all'attimo prima di cedere al sonno che mi strappa via, per la seconda volta, dal calore di quella stretta così familiare da sentirne l'odore anche adesso.
E ti ascolto, chiudendo gli occhi, appoggiando la testa sulla tua spalla, sorrido, trattengo il respiro e apro bocca per dire qualcosa, ma la richiudo. È bello ascoltarti, e quando mi dici le cose che non so, il cuore mi batte forte. Come quando ero lì a guardare i video di argomenti seri e mai sfiorati, come quando eri qui, inusuali per molte persone ma non per noi che guardavamo in silenzio, mentre mi sentivo tanto stretta a te che sembrava stessimo facendo l'amore, quello lento e silenzioso.
Sono tanti i modi di fare sesso, anche la condivisione di momenti che non vedono nessun genere di coinvolgimento, in apparenza, mentre in pratica io mi sentivo completamente tua, tanto da starti in una mano, la stessa che vedo spostarmi i capelli che continuano a cadere davanti al viso. Le tue mani avrebbero bisogno di un tomo a parte, come le tue labbra o lo sguardo, che all'inizio temevo, mentre adesso lo indosserei in ogni momento.
Aggiorno il cellulare, mi dico, per non pensare al sonno che è sparito, per non pensare a quello che mi passa per la testa, alle mie deduzioni, a quelle che non sempre ti piacciono, però alla fine lo sai che fanno parte di me e ogni tanto cerchi di arrivare prima tu, per non farmi partire in quarta alla velocità della luce, e sorrido quando lo fai.
È l'ultima notte d'estate questa, avrei voluto dirtelo, così, senza senso, come molte cose che mi girano in testa quando mi parli, e mentre la tua voce mi accarezza io vedo solo le tue labbra e le tue mani addosso, e penso sia proprio qui che dovrebbero stare, addosso a me, senza alcun dubbio.
Come quando guardo l'ora e so che si è fatto tardi, allora vorrei dirti di no, che non è ora di andare a dormire, perché il sonno toglie, ma poi mi domando "cosa?" e dico buonanotte, mentre aggiorno il cellulare, mentre ha finito e ancora non ho sonno, con la musica nelle orecchie e la testa sul tuo cuscino, sperando ti arrivi il profumo dei miei capelli, sperando non ti svegli e... no, non diciamo cazzate, sperando ti svegli e ti venga voglia di abbracciarmi così forte da togliermi il respiro.
Ti direi che non ho sonno.
Ti direi di stringermi un po' di più, come piace a me.
Come si fa.
Di più.
Con la musica nelle orecchie, ora posso dormire, così.
Aggiorno il cellulare, mi dico, per non pensare al sonno che è sparito, per non pensare a quello che mi passa per la testa, alle mie deduzioni, a quelle che non sempre ti piacciono, però alla fine lo sai che fanno parte di me e ogni tanto cerchi di arrivare prima tu, per non farmi partire in quarta alla velocità della luce, e sorrido quando lo fai.
È l'ultima notte d'estate questa, avrei voluto dirtelo, così, senza senso, come molte cose che mi girano in testa quando mi parli, e mentre la tua voce mi accarezza io vedo solo le tue labbra e le tue mani addosso, e penso sia proprio qui che dovrebbero stare, addosso a me, senza alcun dubbio.
Come quando guardo l'ora e so che si è fatto tardi, allora vorrei dirti di no, che non è ora di andare a dormire, perché il sonno toglie, ma poi mi domando "cosa?" e dico buonanotte, mentre aggiorno il cellulare, mentre ha finito e ancora non ho sonno, con la musica nelle orecchie e la testa sul tuo cuscino, sperando ti arrivi il profumo dei miei capelli, sperando non ti svegli e... no, non diciamo cazzate, sperando ti svegli e ti venga voglia di abbracciarmi così forte da togliermi il respiro.
Ti direi che non ho sonno.
Ti direi di stringermi un po' di più, come piace a me.
Come si fa.
Di più.
Con la musica nelle orecchie, ora posso dormire, così.
martedì 17 settembre 2013
Stelle sbagliate
01.49
È tornata la notte a salutarmi, come si fa con i vecchi amici, quelle cose tipo "ehi, passavo di qui, ci prendiamo un caffè e facciamo due chiacchiere?" E non puoi dire di no; nel momento in cui le apri la porta e la fai entrare, devi mettere in conto che il tempo volerà o si fermerà. Comanda lei.
La notte indossa tutti gli abiti che non metto più, anche quelli che non ricordavo di avere avuto. Ne mette uno per ogni cosa che dice, adesso ha la felpa con cappuccio blu elettrico, quella che mettevo senza pantaloni e che ti piaceva tanto, quella che ho faticato a buttare via, insieme al profumo che per anni siglava la mia pelle, quello che ti accompagnava a casa, e ti sembrava di portarmi via con te.
La notte sfoglia quel maledetto quaderno, lo stesso che ti lasciai sul tavolo quando decisi di andare via. Ho sempre scritto tutto, da quando avevo 12 anni e mi regalarono il primo diario, ecco, vorrei che la notte mi mostrasse quello. Il disegno degli occhi verdi di Diego, che poi si chiamava Giampaolo, ma questo l'ho scoperto dopo tanti anni, quando ero una donna e potevo permettermi di guardarlo in maniera sfacciata, e non nascosta dietro uno scoglio arrossendo se solo si girava verso la mia direzione, su quel diario scrivevo ogni cosa, dalla telefonata con Antonella nei minimi particolari, come se i segreti tra amiche potessero svanire se non li avessi scritti su carta, e poi c'era la volta in cui presi la mia prima insufficienza in matematica, ma siccome dovevo andare a una festa di compleanno non dissi niente a casa e firmò mia sorella. Ecco, vorrei che la notte sfogliasse quel diario, invece trova interessante quel maledetto e fottuto quaderno, che del diario aveva ben poco, ma c'ero io lì dentro, c'era la mia idea di felicità molto distorta e il tuo egoismo, solo che lo dipingevo come amore, e giustificavo tutto. La notte sfoglia i miei risvegli con i capelli arruffati e la pelle calda, con gli occhi lucidi di Ancora e braccia forti ma distratte. sfoglia le attese notturne le tue bugie, torna indietro e sfoglia quel primo bacio rubato, non dovevi e non dovevo, e odoravo ancora della cucina di mia madre, ingredienti genuini, quelli delle persone oneste; eri incuriosito dal mio silenzio, dalla rapidità che avevo quando aprivo e barricavo un sorriso, eri incuriosito dalle parole celate dietro al mio sguardo, quelle che non dicevo, quelle che speravi fossero, ed erano. Mi sentivo importante, ma non potevamo, non dovevamo e, mentre scappavo dalle mie emozioni e mi nascondevo alle tue attenzioni, scrivevo di te, di noi, come facevo a 12 anni per Diego, a 14 per Luca e 16 Giulio e poco dopo per Bruno. Ricordi che mi regalano un tenero sorriso. Ma tu no.
Sono passati tanti anni e il tempo fa guarire, dicono, non penso più a te con dolore, sono proprio incazzata con te, con me e con la mia stupida remissività. Quella di allora, oggi sono diversa, sono cambiata e, per alcuni versi, la colpa è tua, il merito anche.
Guardo la notte far finta di arrossire, e la sfido a farmi la morale, quando lei per prima mi ha insegnato che la moralità non esiste.
02.18
Le dita della notte accarezzano le pagine della mia vita, appoggiano quel quaderno e mi sfidano a negare che tu sia stato il battito più accelerato, e non distolgo lo sguardo, fisso la notte con la stessa espressione che usavo per te. Non quella che ti piaceva tanto, quella era consumata ormai, quella di quando ti ho sbattuto sul tavolo le pagine della nostra storia, quelle che dopo tre giorni ti hanno fatto bruciare 120 km per venirmi a prendere, portando a casa la tua convinzione e le mani fredde. La stessa che hai incontrato ogni volta che mi dicevi "sono cambiato", con il broncio dell'uomo che non è abituato alla fermezza di un No. Eppure, stava succedendo a te, quello che non deve chiedere mai, l'uomo che "ma lo sai che non posso non rispondere e non fermarmi a fare due chiacchiere", mentre io credevo di conoscere l'uomo, invece, eri un copione di te stesso.
02.31
La notte abbassa lo sguardo su queste mie parole e guarda nel mio cuore, ma non entra, sa bene di essere stata bandita da queste parti, allora prova nei pensieri e trova tanti pezzi, ma è tardi per completare il puzzle, e la notte ha le ore contate. Vorrebbe giocare a scacchi, mentre io vorrei farla ubriacare, almeno una volta.
Fisso un'immagine e rabbrividisco. Non batte il cuore, non può battere per chi ti ha fatto sentire sbagliata, e odiare non sempre è sinonimo di amare. Oggi spero di sognare mani delicate e braccia forti, mi addormento con la paura di sognare te, e non sono mai sogni piacevoli al risveglio, anche se il sollievo della realtà mi riscalda; allora invoco il Blu e lo stringo a me, così ti terrà lontano dalla mia pelle schiarita e lavata dai tuoi baci sbagliati e carezze distratte.
02.41
Scusa Notte, ma si è fatto tardi e devo andare via. Ho un sogno che mi aspetta, lontano dalle luci, è un sogno in carne e ossa, dallo sguardo profondo e le braccia presenti, attente. Puoi riposare, se vuoi, ma fai piano quando vai, e porta via il quaderno. Sono pagine che non mi appartengono più, te le regalo, insieme al profumo e ai sorrisi di plastica. Anche se, in fondo, tu lo sai, mi hai solo voluto mettere alla prova, ma non era amore quello. Era una scintilla che ha scatenato un incendio, durato il tempo di un temporale. Resta un foglietto con un sigla e un breve pensiero, sciolti nell'acqua di una pozzanghera. E volto le spalle a una parentesi che sbiadisce sempre più i ricordi di plastica, ora lo so. Adesso vado a dormire, prendi quello che vuoi e non lasciare qui i miei errori, e neanche i segreti (02.53).
È tornata la notte a salutarmi, come si fa con i vecchi amici, quelle cose tipo "ehi, passavo di qui, ci prendiamo un caffè e facciamo due chiacchiere?" E non puoi dire di no; nel momento in cui le apri la porta e la fai entrare, devi mettere in conto che il tempo volerà o si fermerà. Comanda lei.
La notte indossa tutti gli abiti che non metto più, anche quelli che non ricordavo di avere avuto. Ne mette uno per ogni cosa che dice, adesso ha la felpa con cappuccio blu elettrico, quella che mettevo senza pantaloni e che ti piaceva tanto, quella che ho faticato a buttare via, insieme al profumo che per anni siglava la mia pelle, quello che ti accompagnava a casa, e ti sembrava di portarmi via con te.
La notte sfoglia quel maledetto quaderno, lo stesso che ti lasciai sul tavolo quando decisi di andare via. Ho sempre scritto tutto, da quando avevo 12 anni e mi regalarono il primo diario, ecco, vorrei che la notte mi mostrasse quello. Il disegno degli occhi verdi di Diego, che poi si chiamava Giampaolo, ma questo l'ho scoperto dopo tanti anni, quando ero una donna e potevo permettermi di guardarlo in maniera sfacciata, e non nascosta dietro uno scoglio arrossendo se solo si girava verso la mia direzione, su quel diario scrivevo ogni cosa, dalla telefonata con Antonella nei minimi particolari, come se i segreti tra amiche potessero svanire se non li avessi scritti su carta, e poi c'era la volta in cui presi la mia prima insufficienza in matematica, ma siccome dovevo andare a una festa di compleanno non dissi niente a casa e firmò mia sorella. Ecco, vorrei che la notte sfogliasse quel diario, invece trova interessante quel maledetto e fottuto quaderno, che del diario aveva ben poco, ma c'ero io lì dentro, c'era la mia idea di felicità molto distorta e il tuo egoismo, solo che lo dipingevo come amore, e giustificavo tutto. La notte sfoglia i miei risvegli con i capelli arruffati e la pelle calda, con gli occhi lucidi di Ancora e braccia forti ma distratte. sfoglia le attese notturne le tue bugie, torna indietro e sfoglia quel primo bacio rubato, non dovevi e non dovevo, e odoravo ancora della cucina di mia madre, ingredienti genuini, quelli delle persone oneste; eri incuriosito dal mio silenzio, dalla rapidità che avevo quando aprivo e barricavo un sorriso, eri incuriosito dalle parole celate dietro al mio sguardo, quelle che non dicevo, quelle che speravi fossero, ed erano. Mi sentivo importante, ma non potevamo, non dovevamo e, mentre scappavo dalle mie emozioni e mi nascondevo alle tue attenzioni, scrivevo di te, di noi, come facevo a 12 anni per Diego, a 14 per Luca e 16 Giulio e poco dopo per Bruno. Ricordi che mi regalano un tenero sorriso. Ma tu no.
Sono passati tanti anni e il tempo fa guarire, dicono, non penso più a te con dolore, sono proprio incazzata con te, con me e con la mia stupida remissività. Quella di allora, oggi sono diversa, sono cambiata e, per alcuni versi, la colpa è tua, il merito anche.
Guardo la notte far finta di arrossire, e la sfido a farmi la morale, quando lei per prima mi ha insegnato che la moralità non esiste.
02.18
Le dita della notte accarezzano le pagine della mia vita, appoggiano quel quaderno e mi sfidano a negare che tu sia stato il battito più accelerato, e non distolgo lo sguardo, fisso la notte con la stessa espressione che usavo per te. Non quella che ti piaceva tanto, quella era consumata ormai, quella di quando ti ho sbattuto sul tavolo le pagine della nostra storia, quelle che dopo tre giorni ti hanno fatto bruciare 120 km per venirmi a prendere, portando a casa la tua convinzione e le mani fredde. La stessa che hai incontrato ogni volta che mi dicevi "sono cambiato", con il broncio dell'uomo che non è abituato alla fermezza di un No. Eppure, stava succedendo a te, quello che non deve chiedere mai, l'uomo che "ma lo sai che non posso non rispondere e non fermarmi a fare due chiacchiere", mentre io credevo di conoscere l'uomo, invece, eri un copione di te stesso.
02.31
La notte abbassa lo sguardo su queste mie parole e guarda nel mio cuore, ma non entra, sa bene di essere stata bandita da queste parti, allora prova nei pensieri e trova tanti pezzi, ma è tardi per completare il puzzle, e la notte ha le ore contate. Vorrebbe giocare a scacchi, mentre io vorrei farla ubriacare, almeno una volta.
Fisso un'immagine e rabbrividisco. Non batte il cuore, non può battere per chi ti ha fatto sentire sbagliata, e odiare non sempre è sinonimo di amare. Oggi spero di sognare mani delicate e braccia forti, mi addormento con la paura di sognare te, e non sono mai sogni piacevoli al risveglio, anche se il sollievo della realtà mi riscalda; allora invoco il Blu e lo stringo a me, così ti terrà lontano dalla mia pelle schiarita e lavata dai tuoi baci sbagliati e carezze distratte.
02.41
Scusa Notte, ma si è fatto tardi e devo andare via. Ho un sogno che mi aspetta, lontano dalle luci, è un sogno in carne e ossa, dallo sguardo profondo e le braccia presenti, attente. Puoi riposare, se vuoi, ma fai piano quando vai, e porta via il quaderno. Sono pagine che non mi appartengono più, te le regalo, insieme al profumo e ai sorrisi di plastica. Anche se, in fondo, tu lo sai, mi hai solo voluto mettere alla prova, ma non era amore quello. Era una scintilla che ha scatenato un incendio, durato il tempo di un temporale. Resta un foglietto con un sigla e un breve pensiero, sciolti nell'acqua di una pozzanghera. E volto le spalle a una parentesi che sbiadisce sempre più i ricordi di plastica, ora lo so. Adesso vado a dormire, prendi quello che vuoi e non lasciare qui i miei errori, e neanche i segreti (02.53).
giovedì 12 settembre 2013
Un po' del mio Blu
Fin da piccola, per abituarmi a dormire con la luce spenta, mi ripeto questa frase.
La lezione è servita a fare piccole e grandi cose, dall'attraversare un corridoio a luce spenta, a colorare un periodo buio.
Il famoso tunnel si affronta con i propri mezzi. Chi lo arreda, chi ci fa una festa, e poi ci sono io, quella che si mette a tinteggiarlo, un tocco di Blu perfetto, senza luci, senza inutili fronzoli. Seduta sul pavimento, come fossi in mezzo al mare o come fare un bagno di cielo.
La scelta degli elettrodomestici in casa è stata fondamentale anche dai led. Frigorifero con display blu, stessa cosa la lavatrice e il lettore blue ray; per il forno non è stato possibile, display arancione, però fa il suo dovere molto bene e abbiamo fatto amicizia lo stesso.
Il mio Blu non è un capriccio o un colore di tendenza, il mio Blu è stato un'esigenza, diventata uno stato d'animo.
Coloro di Blu le cose che non mi piacciono e quelle che amo. Sono monocromatica.
Il buio è Blu, rassicurante, rilassante.
Il silenzio è Blu, morbido e discreto.
La pelle nuda accarezzata dalla luce Blu, come se ci fosse sempre la luna a spiare, e le lenzuola assumono quella sfumatura cianotica che sembrano drappi di seta.
Il mare, il cielo, sono blu. Anche di notte, ché l'occhio inganna, me lo ha detto la testa, e se vedi il nero dove non c'è devi dare retta alla testa.
Avevo dimenticato il mio mondo, stavo quasi per cascarci in quel buio sbagliato, mi stava portando dove finiscono tutte le persone che si perdono e non trovano più la via del ritorno, dove hai la sensazione costante di aver dimenticato qualcosa d'importante, dove hai quella paura che non ha un nome o un volto, ma ti paralizza e nessuno ti può aiutare se non sai dire cosa temi. Fai finta di niente, però di notte aspetti il giorno e di giorno ti domandi come mai la notte sia così lunga.
Poi il led della sveglia nella stanza nera ha accarezzato il mio braccio. Vedevo.
In quel buio io riuscivo a vedere ogni cosa, il buio non nascondeva niente.
Ho ricordato quel mondo, come se nell'armadio ci fosse stata una Narnia tutta mia, niente leoni o streghe, Re o Principesse, solo un mondo amico che aveva voglia di proteggermi e di avvolgermi in questo grembo di velluto blu. E ho colorato il tunnel, a mani nude prendevo mare e cielo, sporcandomi tutta, colorando ogni cosa, e mentre lo facevo sorridevo, vedevo e non avevo paura della notte, né del giorno. Sono tante le cose che facevo da piccola e che ho perso, questa è stata una ventata di ossigeno che porto sempre con me, dentro. All'occorrenza non ho paura di sporcarmi le mani
Ho speso due parole (quattro, sei, otto, nove...) per spiegare la mia Blunotte, che può sembrare un vezzo ma, in realtà, sappiate che per me è il miglior augurio che possa farvi; affinché non esista notte buia, per nessuno di voi. Blunotte a tutti.
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