mercoledì 24 dicembre 2014

The Night before Christmas

Mi avvio.
Nessuno zaino né borsa. Giusto qualche questione sottogamba, presa e portata in giro alla rinfusa.
Questa sembrava facile e l'altra era così innocua, all'apparenza, che non potevo lasciarla lì tutta sola.
Mentre trascuri quel leggero malessere dell'anima che ti porta a nasconderti nei pensieri più folli. Quelli che ti parlano sottovoce e ti dicono di tornare indietro.
Sottogamba tante note stonate, mentre ascolti la musica che fai andando via.
Persa.
In un monologo che non lascia scampo, ma ti chiude fuori.
Mentre cerchi di confonderti tra la gente, quella distratta, quella che sa, che non aiuta e  ti rende invisibile come se fossi a Pechino o una briciola dal fornaio.

Ho preso sottogamba il Natale, alla soglia della vigilia e dei miei occhi gonfi per le notti rumorose che mi tengono sveglia o, forse, non era la notte a fare rumore, non ricordo più.
Amo il Natale, non è un segreto questo. Lo amo con tutto il consumismo che gli gira intorno, con le ghirlande verde, rosso e oro. Amo le luci, sogno la neve e adoro il profumo di mandarino, cacchio, i mandarini e le bucce sul fuoco, quelli sono sempre come li ricordavo, anche se a farlo sono mani nuove che un tempo erano troppo piccole per avvicinarsi al fuoco, mani dalle unghie laccate di rosso o blu, le mie mani, mentre la mamma sorride, stanca, spaccando una noce e so già che non le dirò di no.

Sulla porta della Vigilia, una mano sulla maniglia, tutto è pronto, sto per tornare a casa e quest'anno ci sarà un posto vuoto e qualche ombra in più sotto gli occhi di mamma e papà che hanno fatto l'albero perché ho sgridato entrambi, perché se avessi fatto vedere che quest'anno ho accantonato anche io un po' il Natale, sarebbe stato un dramma. Da me si aspettano la corazza dura e il Natale sempre in tasca, loro non sanno che l'ansia, in realtà, mi strappa via il Natale con le unghie e di notte vedo brandelli di nastri e bacche rosse cadere rovinosamente a terra.
Alle 4.00.
Ogni volta al solito orario. Così guardo arrivare il giorno, in silenzio, aspettando la Vigilia di Natale e fingendo di portare la Festa nel cuore, perché loro non lo sanno che anche per me è diverso quest'anno e che, in quel posto vuoto, lascerò sedere la mia ansia.
"A Natale sei l'anima della Festa" mi dicono tutti, se Scrooge mi avesse conosciuta lo avrei coinvolto senza tanti effetti speciali, gli avrei raccontato i miei Natali e fatto vedere come era gioioso chi oggi non c'è più. Gli avrei addobbato casa e letto "Era la notte prima di Natale", sarebbe stato orgoglioso di me, perché non l'ho mai letto a nessuno e nessuno lo ha mai fatto per me, del resto, sono io quella che ama i Natali dei film e in ogni film natalizio che si rispetti, gli adulti ricordano quando si leggeva loro quel racconto, i bambini la chiedono ogni anno ai genitori e l'incipit mi scalda il cuore, me la sono cercata e letta per conto mio, l'avrei raccontata a Scrooge però, sissignore, avrei scaldato il cuore al Grinch e perfino Lord Voldemort sarebbe andato in giro per le strade di Londra con un Buon Natale stampato sulla faccia e nel cuore.
Non mi sono mai vergognata del mio spiccato spirito natalizio, in effetti, sembro un po' Attila che raccoglie fiori di campo, ma l'apparenza inganna e vorrei sapere chi dice che un'adulta che si spazientisce di fronte alle vetrine delle scarpe e delle borse, una donna insofferente a tutto quello che è scomodità, anche e soprattutto a discapito dell'apparire, una che mangia la carne alla brace senza le posate e arriccia il labbro di fronte all'ennesima foto di gattino che gioca con il gomitolo, ecco mi sono persa, dovevo arrivare al dunque e me lo sono persa… giusto, sì, ho riletto. Dove sta scritto che un impiastro come descritto sopra, non possa amare il Natale e tutti i lustrini? Contagiosa come l'ebola, ho fatto tamburellare le mie suonerie telefoniche anche all'impiegato della banca, quello che non sorride spesso, insomma, quest'anno ho preso sottogamba un po' tutto, già, da me non me lo sarei mai aspettata, forse per colpa del clima mite o del catalogo dei paesi caldi e delle crociere, ma come si fa, mi ripeto, ad andare al sole a Natale, rompere le palle lamentandosi di chi augura Buone Feste, senza sapere che avvelenano ogni volta un po' di più chi, come me, ama anche le pantofole giganti a stivaletto con la pelliccia interna bianca, calde e confortevoli, mentre leggo A Christmas Carol di Dickens, guardando ogni tanto un classico Natalizio e aspettando sulla soglia la vigilia. Uno zaino l'ho preparato, papà mi ha assicurato di aver fatto l'albero, è tutto pronto, manchi tu. E, in quella frase così dolce avverto di più la mancanza di quel posto a tavola, quello che si riempiva quando eravamo tutti alla frutta e arrivava lo zio a salutare le sue nipotine, perché non esiste una regola sull'età e la morte. Ci sono vecchi di 90 anni che mangeranno il panettone e gente di 50, 20, 10 anni che non ha mangiato neppure l'anguria.
Ho assicurato a papà che sarò puntuale per cena. intanto resto qui, sfoglio Dickens, tanto è presto. Questa notte dormirò a casa dei miei genitori, casa mia. Domani mattina mio padre preparerà il caffè e la mamma gli dirà di lasciarmi dormire, lui si risentirà di questo e sarò io a chiamarlo dalla stanza, per vederlo sorridente e felice di portarmi il caffè, come faceva un tempo quando aveva più capelli neri che bianchi. Chissà come mi vede lui, ed è il suo sorriso che me lo fa capire. Ogni volta.
È la Vigilia di Natale, guardo il mio albero e gli dico che dovrò spegnerlo, ma la luce me la porterò dentro, fino alla soglia del rustico dove troverò mia mamma, sempre più piccola, credo che a un certo punto della nostra vita, quando si hanno certe consapevolezze, i genitori si rimpiccioliscano, e quel profumo di fritto, quel sorriso stanco e un abbraccio un po' più lungo… tremolante sul finire.
Intanto Scrooge impara a fare i conti con i rimpianti, e sono fortunata. Se guardo i Natali passati, non ho rimpianti, solo gioie. Per questo, oggi, mi sto caricando di spirito Natalizio, alla faccia di chi sbuffa perché fa moda e, come disse il fantasma dei Natali passati in SOS Fantasmi ,"Anche Attila piangeva come un agnellino di fronte all'immagine di sua mamma a Natale" Non dovrò più permettere a nessuno di offuscare il mio Natale, esistono già le vere avversità che ci provano e riescono, prima o poi, e un cesto di cuori spremuti e rinsecchiti non si può definire Avversità. Chiedo scusa se mi permetto  di essere gioiosa, ne ho bisogno. Credo che quest'anno io lo meriti più del precedente e, se volete, potremmo meritarlo tutti. Anche voi che state sbuffando. È la Vigilia. L'ho già detto, lo so, ma vorrei fare una cosa per voi che non ho mai fatto per nessuno, ora sedetevi comodi sul divano, sbucciate un mandarino e ascoltatemi, se volete.

Era la notte prima di Natale e tutta la casa era in silenzio,
nulla si muoveva, neppure un topino.
Le calze, appese in bell’ordine al camino,
aspettavano che Babbo Natale arrivasse.

I bambini rannicchiati al calduccio nei loro lettini
sognavano dolcetti e zuccherini;
La mamma nel suo scialle ed io col mio berretto
stavamo per andare a dormire
quando, dal giardino di fronte alla casa, giunse un rumore
Corsi alla finestra per vedere che cosa fosse successo,
spalancai le imposte e alzai il saliscendi.

La luna sul manto di neve appena caduta
illuminava a giorno ogni cosa
ed io vidi , con mia grande sorpresa,
una slitta in miniatura tirata da otto minuscole renne
e guidata da un piccolo vecchio conducente arzillo e vivace;
capii subito che doveva essere Babbo Natale.

Le renne erano più veloci delle aquile
e lui le incitava chiamandole per nome.
“Dai, Saetta! Dai, Ballerino!
Dai, Rampante e Bizzoso!
Su, Cometa! Su, Cupido! Su, Tuono e Tempesta!
Su in cima al portico e su per la parete!
Dai presto, Muovetevi!”

Leggere come foglie portate da un mulinello di vento,
le renne volarono sul tetto della casa,
trainando la slitta piena di giocattoli.

Udii lo scalpiccio degli zoccoli sul tetto,
non feci in tempo a voltarmi che
Babbo Natale venne giù dal camino con un tonfo.
Era tutto vestito di pelliccia, da capo a piedi,
tutto sporco di cenere e fuliggine
con un gran sacco sulle spalle pieno di giocattoli:
sembrava un venditore ambulante
sul punto di mostrate la sua mercanzia!

I suoi occhi come brillavano! Le sue fossette che allegria!
Le guance rubiconde, il naso a ciliegia!
La bocca piccola e buffa arcuata in un sorriso,
la barba bianca come la neve,
aveva in bocca una pipa
e il fumo circondava la sua testa come una ghirlanda.
Il viso era largo e la pancia rotonda
sobbalzava come una ciotola di gelatina quando rideva.
Era paffuto e grassottello, metteva allegria,
e senza volerlo io scoppiai in una risata.
Mi fece un cenno col capo ammiccando
e la mia paura spari,
non disse una parola e tornò al suo lavoro.
Riempì una per una tutte le calze, poi si voltò,
accennò un saluto col capo e sparì su per il camino.
Balzò sulla slitta, diede un fischio alle renne
e volò via veloce come il piumino di un cardo.
Ma prima di sparire dalla mia vista lo udii esclamare:
Buon Natale a tutti e a tutti buona notte!

Ecco, l'ho fatto per qualcuno.
Che sia una Vigilia tradizionale come la sposa vestita di bianco. Che piaccia o meno, è un altro discorso, perché se le Feste sono tradizionali, vuol dire che le sedie sono tutte occupate. Dal cuore vi auguro questo, la tavola tutta occupata.

Ancora qualche pagina di serenità, un caffè e poi viaggerò fino a casa. Ascoltando un po' di rock cercando di sperare ancora nella neve. Pare che dal 26 arrivi l'inverno, forse mi scappa un sorriso.

Ed era arrivato così








venerdì 5 dicembre 2014

Sera

Vedessi che bella questa sera nel suo abito scuro, forse un po' austero, forse solo un po'; poi sorride e la lascio entrare.
È qui, accanto a me e si veste di colori che le percorrono la pelle, come fanali di auto in corsa che giocano a svelare e nascondere, ingrandire e spaventare.
È una sera che scopre la spalla, mentre la luce rossa indugia, sparisce, indugia, ancora e ancora e ancora e guardala come si mescola all'oro. Sera che accarezza e avvolge.
Una sera umida, come i baci di un amante che ti stava aspettando, una sera che t'invita fuori e che non vuoi ascoltare. È sera sopra e sotto pelle, dentro ogni brivido, così sera da incamminartici dentro.
Sera da percorrere.
È sera, di quelle che ti ritrovi attraverso il vetro appannato della finestra, intrappolata, mentre ti guardi negli occhi e t'inviti a starti accanto ancora un po'.
È sera che ti versi da bere e ti brucia in gola.
Sera da urlo.
Sera che disinfetta, sera oltre la nebbia, sera nei dettagli e oltre la rabbia.
Sera.
Sera che non muove una foglia, sera dai contorni immobili, sera da infanzia, sera da voglia.
Sera da passi falsi e rincorse vere. Sera bugiarda.
Sera incoerente e capricciosa, dalle unghie laccate di blu e la mano pallida come la luna. Sera dai contorni tracciati con un dito, sera da segreti e complicità.
Sera che ti riconosci in un rintocco e ti perdi in un ritornello.
Sera oltre il vetro appannato, sera dal respiro leggero.
Vedessi che bella questa sera, lasciami entrare.


sabato 15 novembre 2014

Fango negli occhi

Piove in ogni angolo della mia terra, da Levante a Ponente, piove.
Tombini che vomitano, montagne che cedono e un cielo incazzato che ha voglia solo di coprirla tutta, come fosse un cadavere in decomposizione.
Come fosse vergogna.
Piove.
Su ogni mio bacio dato e ricevuto, su ogni sospiro, mentre annegano i gemiti, piove sugli ulivi e sui segreti.
Piove anche sul mare.
Sugli amanti e sui teatri, nei negozi, nei locali; piove.
Piove sui miei peccati, espiati e condannati ancora.
Piove, su quell'uomo diviso a metà.

Piove.
Sui Ti amo mai detti, sul coraggio dei Ti voglio guardati negli occhi, affrontati e vissuti.
Piove e guardo scorrere i nostri corpi tra il fango degli altri che sapevano, vedevano e ci condannavano. Piove. sulla pira di legnetti scoppiettanti.
E non si spegne.
Piove sulla giovane strega che non diceva Ti amo, ma voleva con tutta se stessa.
Piove.
Sulle piccole città di mare, dove la gente ha gli occhi stretti e la pelle bruciata dal sole.
Piove.
Dimmelo.
Piove sul coraggio di non mentire.
Ti voglio.
Piove su quell'angolo d'inferno che mi portava in paradiso. Piove sul passato che viene a galla, nuotando nel fango dei ricordi.
Piove, fa acqua dappertutto e lo sapevo.
Sulla delusione, sulle aspettative e sui puntini delle i, piove.
Piove sul male che ho fatto e ricevuto.
Piove sul bene reciproco e sul male degli altri.
Piove sull'amore che non si dice, sul piacere senza maschera, pulito e limpido.
Piove e lava via, sporca e pulisce.
Piove sulla ragazza che amava il piacere senza maschera, sul suo coraggio e sulla sua spontaneità.
Passano gli occhi sporchi tra le macerie e il fango; e piove su quel letto più pulito delle bocche che si muovevano, al di là degli occhi appannati.
Piove sul desiderio di dire Ti voglio, di chi lo sporcava d'amore.
Piove sulla mia terra, da Ponente a Levante.
Piove sul Ponente e sulla corazza indossata, piove.
Oggi che sorrido e, come ieri, non lo dico. Piove.



sabato 1 novembre 2014

Il buono della legge

"Mamma, ma i poliziotti hanno la pistola e uccidono?"

"I Poliziotti ci proteggono, la loro pistola serve solo a spaventare i cattivi, così possono metterli in castigo. Fino a quando non torneranno a casa più buoni."

"E la mamma e il papà di questi signori, poi, sono felici?"

"Sì. E ringraziano i poliziotti."

Mi hai raccontato un sacco di bugie, mamma, o forse anche tu pensavi fosse la verità, non saprei.
Ormai siamo adulte tutte due e qualcuno deve pur dire all'altra che le cose non sono proprio andate così.
Qualche volta magari, ma non sempre.
Vedi, mamma, ci sono state persone che andavano per la loro strada, canticchiando, forse barcollando e hanno incontrato i buoni, che li hanno riaccompagnati a casa ridacchiando e, con una tiratina di orecchie, li hanno assicurati alla loro famiglia.
Ci sono state persone che andavano per la loro strada canticchiando, forse barcollando un po', forse prendendo a calci una lattina nella notte, ma cosa c'entra questo, anche fosse stata la portiera di un'auto parcheggiata e qualcuno avesse chiamato i buoni lo avrebbe fatto per farli mettere in castigo, per far loro capire che quella cosa non deve essere fatta, per poi tornare a casa dalla propria famiglia fino a quando fosse servito capire. Ad alcuni è successo questo, mamma.

Ad altri no.

Ormai siamo grandi, mamma. Inutile girare le frittate, non che non sia servito far cuocere l'uovo dal rovescio, quando ero piccola e vedevo i buoni mi nascondevo dietro te o dietro la nonna e alcuni di loro se ne accorgevano, mi sorridevano o mi strizzavano l'occhio, allora io arrossivo e mi sentivo invincibile.
Sapevo che, se poco più avanti fosse passato un ladro e avesse rubato la borsetta a te o alla nonna, ci sarebbe stato un buono che lo avrebbe messo in castigo, fino a quando necessario. Un po' come facevi tu con me quando mi dicevi di sedermi e pensare bene a quello che avevo fatto o detto.

Con gli anni la frittata si stava bruciando, mamma, e oggi quando vedo i buoni ho paura.
E non posso più nascondermi dietro la gonna di qualcuno.

Ho paura di non trovare i documenti o che mi caschi la borsa e loro mi sparino, non volevo dirtelo così mamma, ma non sono giocattoli, quelle sono armi vere e, successivamente, le persone potrebbero pensare che io stessi brandendo una bomba. Chissà, mamma, da quando ho iniziato ad avere questi pensieri assurdi, so solo che ho paura, ma sorrido sempre ai buoni.
Quando ho paura sorrido di più.

Nei film, quando interrogano qualcuno, i buoni si mettono d'accordo, uno finge di essere cattivo per impressionare il ladro, l'altro mette il malvivente in guardia dal suo collega, gli offre una sigaretta, gli chiede se vuole dell'acqua. Poi il buono/attore finge di spazientirsi.
Hai presente, mamma? Gli arriva a tanto così dalla faccia, a tanto così; ma non lo sfiora con un dito.
Neanche quando il ladro gli sputa in faccia o gli piscia sulle scarpe, il buono lo sfiora. Lo sai perché?
Te lo dico io, mamma. Non lo sfiora neanche quando perde le staffe perché accanto a lui ci sono altri buoni che lo fermano e lo fanno ragionare. Portano via il malvivente e i buoni fumano una sigaretta in silenzio, quasi con vergogna, perché quella notte uno di loro stava per dimenticare le regole del gioco e stava per finire dall'altra parte della barricata. E se fosse successo lo avrebbero messo in castigo, affinché  il foglio di quaderno a quadretti abbia la linea che separa Buoni e Cattivi ben marcata.
Nei film succede questo, mamma, ma non qui. Non nella vita reale.
Non sempre.

Ricordi, mamma, quando ero piccola e una mia amica si fermava a dormire da noi? Ti sentivi responsabile, non ci lasciavi attraversare la strada da sole e al mare dovevamo essere sempre a portata di vista. Più del solito. Un giorno la mia amica ha avuto mal di pancia forte e tu hai chiamato subito la pediatra e i genitori per avvisarli di questo. Hai agito come se fossi io, perché dovevi custodire questa bambina e sai mamma, avevi ragione: tu eri responsabile, anche se lei si fosse fatta male da sola.

Non so cosa sia successo, mamma, so che i buoni rischiano duro per noi, per far sì che i bambini si sentano sicuri e invincibili per strada. Non so al posto di chi lavora sodo e con onestà come mi sentirei se i miei colleghi si sporcassero le mani e la coscienza. Non so se riuscirei ad ammiccare a una bambina che guarda la mia pistola da dietro la gonna della nonna. Al posto di un buono che torna a casa dalla famiglia sapendo che, a causa dei miei colleghi, le persone per strada potrebbero avere paura di me, sarei preoccupata e arrabbiata e la sai una cosa, mamma? Penso che se esistesse Superman, oggi, non assicurerebbe i farabutti alla giustizia.

Vedi mamma, mi dispiace averti detto tutto questo, è un po' come quando ho scoperto che Babbo Natale non esiste, ma quella volta ho finto di crederci ancora un po'. Più per te che per me.
Ora non si tratta più di giocare mamma, si tratta di dire le cose come stanno.
Certo che so cos'è il castigo, anche da piccola sapevo che la prigione era un castigo diverso dal "siediti a riflettere" e avevo paura della prigione perché sapevo che non vi avrei visto sempre, perché non avrei potuto guardare i cartoni o parlare e ridere con Antonella. Sapevo che non si poteva andare a prendere un gelato o andare alle giostre, fino a quando non ti lasciavano tornare dalla tua famiglia. Sapevo che alcuni cambiavano e sapevo che altri continuavano a farsi portare in prigione, perché non volevano cambiare o non ci riuscivano. Quello che non sapevamo, né tu né io, mamma, è che Stefano, Giuseppe, Federico, Riccardo e chissà quanti altri, non sono mai stati riaccompagnati dalle loro famiglie, perché qualcuno ha pensato che fossero figli, fratelli, amanti, cugini o amici di nessuno. Perché i buoni che sorridono ai bambini preoccupati, quella volta, non erano di turno o forse perché qualcuno si è voltato dall'altra parte. Non so perché, mamma, so solo che Stefano, Giuseppe, Federico, Riccardo e chissà chi altri, hanno attraversato la strada senza essere custoditi.
E nessuno è stato responsabile di e per loro.




lunedì 22 settembre 2014

Breve cronaca di una vacanza

A quanto pare ci sono riuscita e sono in ferie. È così, dunque, che ci si sente in vacanza, con le pile cariche dopo tre giorni e la schiena sfondata per il troppo dormire. Io, che quando dormo sei ore scarse devo accendere un cero e ora, in alta montagna, passo il tempo a mangiare, dormire, nuotare, fare una sauna e un bagno turco, mangiare, mangiare e dormire. La montagna offre il silenzio, il cibo ottimo e la ripetitività delle giornate. Qualcosa tipo Ricomincio da capo e, dovendo scegliere, rivorrei la merenda con la pizza ai funghi, le torte di frutta e la cena con i canederli allo speck e formaggio, polenta e funghi.
Quando mi hanno detto che la cena veniva servita dalle 19.00 alle 20.00 ho storto il naso, e la mia preoccupazione era che la colazione si potesse fare solo fino alle 9.30. Beh, in effetti non serve molto più tempo. Qui ci si sveglia con il sole e una fame orba, ti dai una sciacquata e, senza usare il pettine, si scende al piano zero. Quando le porte dell'ascensore si aprono arriva un aroma di cose buone e il suono leggero di "buondì" sussurrati, mescolati a sapori di torte di tutti i tipi, a toast salati e Nutella sul pane tostato di fresco. Il sorriso delle due signore che ho chiamato "sorelle Kessler" due  anziane ospiti dell'albergo sempre sorridenti, probabilmente gemelle o non saprei, due colossi in altezza e stazza che, pur non parlando una sola parola di Italiano, si fanno capire. Anche in tedesco.
Ieri pomeriggio ero nel bagno turco, entra una signora e mi dice di essere uscita dalla sauna perché due donne anziane insistevano affinché le donne fossero libere dagli indumenti e si erano tolte i costumi da bagno. Lei si sentiva a disagio e ha cambiato zona relax. Finito il bagno turco scelgo la sala della cromo terapia e vedo uscire dalla sauna le due tedesche, rido, pensando che a circa 75anni siano molto più libere loro di molte giovani donne, schiave di scatti perfetti e sguardi carichi di giudizi prettamente estetici. Il peso della competizione e qui, in alta quota, le donne italiane sono le peggiori. Belle e stronze. E non è mai un complimento quando do dello "stronzo" a qualcuno.
Osservo in silenzio, mentre un fascio di luce giallo oro mi accarezza, sento stralci di conversazione e, in men che non si dica, tutta l'area benessere parla delle "due vecchie" che fanno la sauna nude. Loro, ignare delle cattiverie, sorridono a tutti e versano una tisana a chi si avvicina alle teiere. Imponenti come la montagna, coperte dai costumi magicamente riapparsi. Mentre arriva il Blu a rassicurarmi, quella più alta mi porta un bicchierino di the verde e dice qualcosa che, se non fosse stato per il sorriso, sarebbe sembrata una dichiarazione di guerra. Accetto e ringrazio nella mia lingua. Se avessero saputo parlare inglese lo avrebbero fatto, allora lo faccio con l'uso della mia lingua.
Grazie.
La parola più bella del mondo. E lei la ripete estasiata. Poi riprende a dire cose incomprensibili, io sorrido, mentre il mio relax gioca con i colori e la musica di sottofondo diventa solo un brutto ricordo, saluta e torna dalla sorella, amica, gemella, mah.
In montagna si possono collezionare chili in men che non si dica. Al mattino si prende il sole, nella pausa pranzo si nuota, primo pomeriggio si va al centro benessere, mentre fuori inizia a diluviare, poi si fa merenda e, siccome fuori fa freddo e piove ancora, si opta per l'idromassaggio con acqua calda. Dopo la doccia è già ora di cena e nel giro di un'ora rotoli fino alla camera. La prima sera, alle 21.30, dormivo già. Ora sono migliorata; riesco a stare sveglia fino alle 22.30. Una sola volta ho visitato un paese qui vicino per andare a mangiare una pizza, ma sotto la pioggia non è bellissima la montagna, se non guardata da sotto le coperte, non è come il mare, rassicurante, se ti guardi intorno mentre piove, in montagna, ti senti perso e in pericolo. Anche se sono certa che sia una mia idea. Forse dipende dal fatto che il clima cambi mutande ogni ora, forse dipende dal fatto che io non sappia distinguere il versante delle nuvole da acqua da quello innocuo, e ieri sera ripetevo "Ora passa", fino a quando le gocce si sono trasformate in grandine. Per chi vive al mare non è così semplice ascoltare il vocione di queste rocce così vicine che sembrerebbero pronte a farsi grattare dietro le orecchie. Oggi, per la prima volta dopo giorni, mi è sembrato di sentire un abbraccio. Asciutto, ma cordiale. Meno avvolgente di quello del mare ma, non per questo, meno sincero. La montagna sa abbracciare così, con cortese distacco, e io la capisco, sono pur sempre un'estranea. Simpatica, educata, ma estranea.
Sono rimasta in albergo, mi avevano proposto l'escursione con "Giovanni" (difficoltà media) e mi sono vista passare i miei anni davanti, dietro e intorno, accovacciata in un crepaccio fino a diventare cibo per stambecchi onnivori, poi ho pensato "e chi cacchio è Giovanni?" mentre non smettevo di sorridere, sembrava avessi una paresi mentre imploravo dentro "Fa' che non insistano", declinando la fatica, accumulando qualche centinaio di grammi extra, inclusi nel pacchetto vacanze relax.
Manca poco e torno a casa. Penso che rilassarsi, alla lunga, stanchi.
Programmi per l'inverno: dieta, veglie notturne, dieta, lavoro, dieta e una giornata al mare. Devo portargli i saluti di questa montagna bellissima.











sabato 23 agosto 2014

Vacanze fai da te

Manca meno di un mese alle ferie e io non so ancora dove andare né se ci voglio andare lì.
E se poi incontrassi la gente che non mi piace? Probabilmente la cosa sarebbe reciproca, ma io non sgomito per piacere a tutti i costi a qualcuno, m'interessa piacere a chi piace a me e non è detto che questo avvenga sempre.
Meno di un mese e ho ancora così tante cose da sistemare; meno di un mese per creare la mia corazza e vaccinarmi contro il male del presente: dover apprezzare tutto ciò che piace agli altri.
Lo devo a me stessa, la prevenzione è importante.
Non scrivo più molto, non come prima, le cose da buttare sono sempre tante e, generalmente, le scrivevo prima di procedere alla rottamazione della mia anima.
Un po' come una maglietta lisa e, visto che ormai l'hai lavata e hai consumato detersivo, acqua e corrente, la metti una volta e poi la butti. Ecco, così: visto che ci ho pensato lo scrivo, poi non ci torno più sopra. Ci provo, se non fosse per chi fruga nella tua spazzatura, analizzando i tuoi avanzi e ogni tuo rifiuto.
Meno di un mese. Fuori da partenze e arrivi intelligenti, con l'incognita del sole e il bisogno di chiudersi in casa a dormire notte e giorno mangiando tutta la carne che vuoi, senza posate, perché da piccola mia mamma mi sminuzzava la carne con le mani, per sentire bene che non ci fosse un nervetto o un ossicino e affinché mi abituassi a masticare, un minimo. Inzuppava il pane nel sughetto e preparava un boccone così buono che, se lo avessi mangiato dalla forchetta non avrebbe avuto lo stesso sapore.
Meno di un mese per tornare a essere io.
Essere quella che piace a se stessa, anche a discapito degli altri, perché se pensi una cosa e fai l'errore di dirla, gli altri diventano premurosi e ti fanno il lavaggio del cervello, ti strofinano la bocca con il sapone e poi ti piazzano la divisa del resto del mondo.
Meno di un mese per spogliarmi degli abiti stretti di gente che non conosco, per uscire incolume da questa epidemia di narcisismo, ho un vaccino infallibile che si chiama silenzio. Ah, già, il silenzio è roba da poeti, eppure, è l'unico modo che so per ascoltare, perché se parlo troppo poi sento solo me, e io, un po' mi conosco, sono gli altri a non sapere un cazzo di me e parlano, si prendono il disturbo di farmi sapere il loro disappunto, come se non lo sapessi, come se a me importasse qualcosa di avere le dita unte di carne, come se non avessi posate in casa. Come se.
Non sono loro, sono io che non mi piaccio quando piaccio a loro, che mangio la tagliata senza rucola anche se la rucola è la morte sua, ma anche la mia.
Meno di un mese per decidere se dentro o fuori, se mare o montagna e fanculo il sole, tanto sono quella che riesce a spegnere la luce sul sipario ancora aperto, con una fionda dietro la schiena, nel caso in cui puntassero quel faro fastidioso che ti mostra così uguale a chi non ti piaceva e non avresti voluto essere.
Meno di un mese per trovare un posto fuori da ogni obiettivo, perché a me i selfie non danno fastidio, però mi hanno sempre fatto un po' ridere i miei, quelli degli altri non m'interessano, non come valutazione della persona, almeno.
Se mai esistesse un posto così ci prenderei la residenza, e non si tratta di essere asociali o meno, si tratta di ritrovare la serenità con sé stessi. Ok, anche un po' di silenzio. Non quello che parla, il silenzio che ascolta e non ha voglia di farti cambiare idea né di consigliarti mete all'insegna della bella gente.
Ho smesso molte persone, proprio come si fa con le magliette lise, suona brutto, lo so, ma non potevo farne a meno, l'alternativa sarebbe stata andare in giro con abiti logori o scoloriti.
Alcune le ho riposte in fondo al cassetto, altre invece le ho buttate via, come il tempo o come posate di plastica che non mi davano il sapore buono della carne mangiata con le mani, perché mi obbligavano a usare forchetta e coltello e, mentre mangiavo, pensavo e non parlavo più, non potevo buttare via il cibo scadente né quello scaduto. Ingozzata di blablabla, con una crosta del loro sorriso riprodotta sulla cornice del mio viso, aspettando uno sguardo attento che scoprisse e mettesse fine a tutto questo.
Meno di un mese. È quanto manca alle mie vacanze.
Un posto in cui poter andare in giro con una molletta per il bucato tra i capelli e nessuno che te lo faccia notare, dove nessuno si domanda se preghi e per chi. E, già che ci siamo, neanche chi. Mare, monti, sole e pioggia. Un ombrello ripara da tutto. Mai senza.
Intanto mi vaccino contro il virus che mi sta soffocando e mi sorride, tentando di aiutarmi. Dicendo di conoscermi.
Sperando di riuscire a perdonarmi per tutti quei "fanculo cretino/a"  omessi per pigrizia, ma pensati fortemente.






giovedì 14 agosto 2014

Estate, ora passa.

Estate.
Di mare, di boschi e scampagnate.
Estate di salsedine e resina, di erba e sapore di carne bruciacchiata, di frutta fresca e torte salate. Di creme e lozioni, di risate e pelle calda.
Estate di sabbia nei capelli e tra le dita, di musica e tormentoni.
Estate.
Di ricordi e di presente.
Estate di lavoro e di stanchezza, di voglia di riposare, perché la scuola è finita da un pezzo, adesso tocca a me e le ferie sono lontane.

Estate di lucciole spiaccicate sul pavimento e di scie luminose che neanche sulla pista di atterraggio all'aeroporto.

Estate di bronci e noia, perché avresti preferito andare in spiaggia, invece ti sei trovata a guardare dall'alto in basso l'amico coetaneo, figlio degli amici dei tuoi genitori, gli stessi che ammiccavano e si davano le gomitate mentre scambiavi quattro chiacchiere di cortesia, quelli che ci chiamavano fidanzatini, mentre la vergogna prendeva fuoco sul viso e la rabbia prudeva nei pugni chiusi.
Estate.
Di ferragosto in mezzo agli adulti che pensavano a grigliare, preparare e ridere di cose stupide, e meno male che l'adolescente ero io. Estate.
Di silenzi e pensieri da galera. Estate di "ma cosa vuole questo da me?" e "speriamo che gli scoppi un testicolo e si torni a casa."
Estate da "cosa non darei per sdraiarmi sotto quel pino con un libro in mano"mentre gli adulti pensavano a tutto. Oggi, mai come allora.
Estate.
Di storie vissute a metà, di promesse e partenze.
Di volti abbronzati, di scogli rifugio e labbra dolenti.
Estati di "C'è mio padre, restiamo qui. Baciami ancora."
Mentre pensavi che fosse l'amore della tua vita; quando ancora, se andava bene, durava una stagione la vita. E l'amore con essa.
Estate.
Di lunghe passeggiate nel bosco e di rami così alti che pensavi fossero tetti.
Di odore di foglie e terra, di voglia di solitudine e di ascolto, perché al mare raccontavo, nel bosco ascoltavo, mentre decine di occhi mi spiavano. La natura sa osservare.
Estate di pensieri frivoli e problemi che duravano il tempo di una granita al sole.
Mentre il mare mi ascoltava e si arrendeva alla carezza tiepida di un tramonto stanco.
Estate di asfalto bollente e città deserta. Di caldo e noia. Estate di "Oddio non ho ancora toccato matematica", ma lo sapevo solo io.

Estate. Oggi.
Estate di.
Alla vigilia della festa, in silenzio. Con la musica che mi accarezza la pelle, troppo chiara per il periodo, con i pensieri seri e la ruga in mezzo alla fronte. E la granita non si scioglie.
La vigilia della festa dell'estate e "Oddio non ho toccato il ferro da stiro", sorrido e penso che domani dormirò finché ne avrò voglia, farò finta di dimenticare il Ferragosto e preparerò la palma a chi, puntualmente, me lo ricorderà. Sarei andata al mare, ma troppa gente per raccontare. Nel bosco beh, non si scherza con il bosco, e qui non ci ha presentati nessuno. La mia città è lontana e io non ho più visto quegli occhi che mi spiavano, né ascoltato le sue lezioni di vita.
Estate.
Oggi.
Di "non vedo l'ora che sia inverno per poter ricordare questa estate e tenerla dietro le spalle", mentre l'agrifoglio colora le sue bacche di rosso.



domenica 27 luglio 2014

Lo stupore della farfalla

Lo stupore.
Quello spontaneo, quello che non ti aspettavi di riuscire a provare e quello che non fingi; perché se non ce l'hai e ti crede, non sei tu a essere brava, è lui l'imbecille.
Se non lo provi non lo conosci.

Lo stupore.
Il mio, quello che ho visto riflesso in occhi che non mi appartenevano.
Ero io, con le guance arrossate e il cuore in gola, il respiro appena accennato, come se tu avessi un coltello affilato in mano e io sentissi la sua lama tra pelle e tessuto. Delicatamente in trappola.
Respira piano o ti fai male.

Lo stupore.
Qualcosa che si avvicina molto alla sorpresa, alla meraviglia, ma non sono la stessa cosa. Qualcosa che si mescola e ti spiazza a tal punto da non riuscire a riprodurre la ricetta, neanche davanti allo specchio, perché non ti sei vista come ti ha visto lui. Per questo potrai fregare qualche idiota, ma non chi ha visto di cosa sei capace quando ti stupisci.
Non chi sa stupire.

Donne che implorano di essere stupite, uomini che si cimentano in capriole e tripli salti mortali senza rete, vittime dei manuali del perfetto imitatore alla ricerca del settimo punto dell'alfabeto, mentre lo stupore si cela nel punto di non ritorno. Ed è lì che ti ritrovi, senza sapere come ci sei arrivata, e non sei sola.
Non sai. Sei.
E cerchi ragione, ma non vuoi trovarla. Togli le mani dalla tasca e getta la borsa.

Lo stupore.
Quello che non per tutti è uguale, quello che non ti aspettavi, quello che ti ripeti "ma tu, dove sei stato prima?" lo pensi e non lo dici. Il tuo stupore ti tradisce, lo sapete entrambi, anche se lui fa finta di niente, elegantemente, del resto non aveva mai detto nulla e non aveva scritto in faccia "io ti stupirò", forse ti ha ingannata però non è male essere ingannati così e, a sorpresa, stupiti.
Se abbassi lo sguardo non se ne accorge.

Il resto del mondo promette stupore e sorprese, bocche piene e mani vuote. Mi volto verso chi non dice una parola, nessuna promessa. Chi ti parla di vita, mentre ascolta la tua e si nasconde in una sfida di sguardi e lì, ti senti invincibile. Avevi anche allungato le ciglia con il mascara giusto, per essere irresistibile, campionessa di sguardo accattivante.
Basta una parola per vacillare e un silenzio per crollare.

Lo stupore, questo compiaciuto.
Il vuoto allo stomaco, quando inizia la discesa sulle montagne russe, un'emozione che non puoi chiedere e non puoi confezionare, se manca il dosso.
E se me lo chiedi dimentico come si fa.

Lo stupore. Come quando ti ripeti che  era solo una giornata di pioggia. Stanca e sottile, ma insistente; mentre guardi le strade allagate e pensi che non c'era stato neppure un tuono di avvertimento.
Appena volti le spalle ci sei dentro.

Lo stupore. Delicato come ali di farfalla, fragile come un fiore di cristallo. Due parole. E la lama affonda, due parole e spalanchi gli occhi. Due parole e tutto diventa come il resto, due parole e tuona, piove forte e sai che le strade si allagheranno. Due parole…
… e ti sei macchiato le dita con la polverina delle ali di una farfalla che scandiva il tempo, perché aveva i voli contati. 














giovedì 17 luglio 2014

In viaggio

"Quanti modi di viaggiare conosci?"
Una domanda sussurrata così vicino da scoprire un viaggio nuovo.
"Due. Uno è illegale."
Mentre pensavo fortemente tre.
La pelle fresca e le labbra, bollenti, immobili sul mio palmo.
Un sorriso complice inghiottito da uno sguardo così serio da mescolarsi a quella notte senza stelle né luna.
Senza bagagli.

Esistono incontri che sono viaggi, più o meno lunghi. Persone che sono paesaggi, itinerari, soste o cambi di programma. Una notte, due, tre. Una vita. Quattro ore. E, se è valsa la pena, ricorderai quel viaggio.
Resti ferma, mentre scorri diapositive che non condividerai mai con nessuno. Ripercorri occhi, labbra e pelle. Odori e respiri. Ascolti parole senza senso e non ti riconosci, ma sei.
Passeggi sulle risposte, perché un viaggio non ha bisogno di domande quando hai le emozioni zingare, e non lo dici perché la gente non capisce, la gente programma tutto, anche le occhiate davanti allo specchio e, se per strada si fermasse il treno per il paradiso, lo lascerebbe andare perché non ha bagaglio pronto. Ché se non hai cinque paia di scarpe per tre giorni sei nuda e io, che ti vengo incontro scalza, sono in viaggio dal primo sguardo.
E non lo dici perché è tuo.

Stazioni di passaggio a tempo indeterminato.
(fino a noi)
Binari.
(fammi morire)
Seduta dal lato finestrino.
(scorri e non passi)
Sorrido e ne accendo una, mentre le stagioni scorrono.
Estate.
(ho sete)
Inverno.
(Accendimi)
E le mezze erano in viaggio a viverci, in vacanza dal buonsenso.
E guardo i sorrisi abbronzati e guardo il pallore di tutto questo viaggiare leggeri.
(hanno valigie pesanti incatenate al dito)
Un solo cambio, niente abito, un posto al riparo dal sole e basta. Un viaggio, una vacanza da ricordare.
"Quanti modi di viaggiare conosci?"
"Uno. E non sono ancora tornata."
















sabato 21 giugno 2014

Dentro

Ho bisogno di un rifugio.
Un posto giusto al momento giusto; un locale sempre aperto dove nessuno badi a me, tipo se fossi scalza, spettinata o senza trucco.
Dentro.
Ho bisogno di estraneità.
Nessuna caramella, nessuna domanda, e se vuoi un panino e un caffè nessuno ti rifila anche il dolcetto alle mele, altrimenti uno chiede panino, caffè e dolcetto alle mele, e no, non voglio la coca cola con 0,99 € in più. E neanche amici dal contatto facile.
Dentro.
Ho bisogno di un alibi.
Un vorrei ma non posso, casomai ne fosse avanzato qualcuno ai codardi, se non è di troppo disturbo, altrimenti, continuo ad arrangiarmi con i miei "Non voglio", mentre mi osservo al di qua del vetro, con il resto del mondo nell'acquario.
Blop Blop Blop.
Pesci colorati dalle pinne lucide e scattanti.
Dentro.
Ho bisogno di una birra, dieci anni di meno, facciamo quindici, anzi no. Ognuno ha gli anni che si sente ed è da quando ne ho venti che me ne sento cento. Poco cambierebbe. Prosit.
Dentro.
Ho bisogno del non luogo più bello della terra. Il posto dove nessuno ti conosce o ti vede, dove un sorriso distratto non ha spiegazioni né domande.
Sono qui e il resto non esiste, non conta e non c'è.
Dentro.
Inclino leggermente la testa e nevica. Un globo natalizio, una clessidra gelida e soffice. Il candore del miracolo. Fuori c'è il sole, ma io sono Dentro.
E chiudo a chiave, respiro e appoggio le mani alle pareti sottili di vetro. Faccio le boccacce ed è perfetto. Nessuno si gira, nessun perché. Mi andava di farle e Dentro è il posto perfetto. Massima insicurezza, allarme inserito.
Dentro.
Cambio il cielo con un dito, sposto alberi con una mano e punteggio la pelle e le stelle. Corro, canto e salto. Rido, piango e penso.
Dentro.
Ho trovato questo posto una notte di tanti anni fa. Da allora, viaggio instancabilmente, senza biglietto. Prima classe, lato finestrino, scompartimento fumatori.
Tutto quello di cui ho bisogno, una "Stanza delle Necessità" su misura. Non raggiungibile.
Nessuno ci arriva, neanche su invito. Al massimo, puoi pulirti i piedi sulla soglia, una cosa tipo "Ma che belle piastrelle, gli infissi sono di alluminio?" e poi arriva il momento in cui ti dico che zucchero non ne ho, la farina é finita e ho molte cose da fare. E non puoi entrare. Impossibile da vedere, scalare o sfondare.
Un luogo insidioso, così lontano da essere a un passo da me. Ed è mio.
E sono io. Dentro.



sabato 24 maggio 2014

20 Maggio 2014: Ciao Zio

Siamo contenitori di pensieri mescolati a ricordi e speranze, parole inespresse appiccicate come un mazzo di carte bagnato dalla pioggia e asciugato nell'umidità di una scatola nascosta nella soffitta buia della mente.
A casaccio, perché le parole spingono e sono troppe, non posso permettermi di rispettare il filo logico di spazi temporali o discorsi terminati e lineari, altrimenti, se tirassi quel filo, si scucirebbe la spontaneità.

Parto da un balsamo che, a sprazzi, lenisce il mio cuore.
Un "Ti voglio bene" e un "Grazie" detti con cognizione di causa, scappati perché troppo veri e sentiti per essere lasciati dentro la carezza di uno sguardo che non avrebbe avuto bisogno di parole.
Due momenti in uno.
E lui stava morendo, ma ancora speravamo. Poter parlare di lavoro lo illuminava e lo rendeva sano. Lui, lo zio per eccellenza, troppo giovane per vederlo andare via, troppo dignitoso per lasciar trapelare una sola parola di autocommiserazione, troppo protettivo per accettare i viaggi delle nipoti, le cure di mia mamma, sorella maggiore che, da quando lui aveva 18 mesi, si è presa cura di lui, il più piccolo di tutti, l'unico che non ha vissuto la mancanza del padre né la disperazione di una madre che doveva fare i conti con il pane in tavola e il bisogno di piangere. Solo la mia mamma ha nel cuore tutto questo, mentre a dodici anni si ritrovava tra le braccia un bambolotto in carne e ossa, perché la nonna doveva lavorare, e lui, lo zio bambolotto di mamma, ignorava la tragedia che si consumava tra le mura di quella casa che lo aveva visto nascere, la stessa casa in cui vivono oggi i miei genitori.
Lo zio.
Cinquantasette anni sono pochi per lasciare la vita ma, quando la vita ti lascia, non guarda la data di nascita.
Lo zio.
Lo stesso che ha accettato una diagnosi terribile, facendo coraggio a noi e assicurandoci che avrebbe lottato fino alla fine, e ha mantenuto la parola.
Lo zio.
Quello che ha fatto piangere le infermiere, perché "non abbiamo mai auto un paziente così malato che avesse la delicatezza di non sporcare o di sopportare senza suonare il campanello".
Lo zio.
Che, due giorni prima che le cose precipitassero, è voluto andare fuori città per controllare se i "suoi ragazzi" fossero a posto con il lavoro imbastito e non avessero problemi. Per dare un paio di consigli e due dritte. Per salutare colleghi e amici e dir loro "mercoledì sento un altro oncologo e dopo questa visita vediamo cosa salta fuori" facendo loro coraggio, così tanto coraggio che alla fine ci credevamo tutti noi, mentre lui sapeva benissimo che il suo destino era segnato dalla stessa bestia che aveva dilaniato sua madre.

Poco più di due mesi per abituarti al fatto che "la gente muore" e che, la gente, non è altro che un gruppo di persone. Tra queste, potresti esserci anche tu a fare i conti con la morte di una persona cara.
Poco più di due mesi per ritrovarti a sperare in un errore o in un miracolo, scartando l'eventualità più papabile e, vedendo la lucidità di un uomo così giovane, oltre la sua decadenza fisica, ritrovarti improvvisamente a sperare e supplicare che perda la ragione e faccia presto a "dormire", perché non si è ancora pronti a usare la parola "morte". Non per lo zio.

Un mese fa gli ho detto grazie, per i suoi consigli lavorativi, che poi erano lezioni di vita che si espandono a tutto.
"Dire sempre la verità, essere onesti e costruire giorno per giorno il proprio lavoro. Perché se sei stato onesto e hai trattato bene le persone, queste non lo dimenticheranno e potrai sempre rialzarti a testa alta."
E lui lo aveva fatto. Era caduto e si era rialzato a testa alta, lavorava circondato da persone che lo amavano e avevano stima di lui.
Quando gli dissi "Grazie" mi sentii in colpa. Lui non stava bene, eppure non sembrava, era felice di poter parlare di qualcosa che non fosse dolore, cure, esami. E poi quel "ti voglio bene" trotterellante dal mio cuore al suo. Non detto sul letto di morte, ma quando era sulle sue gambe e con la voce forte e sicura di mio zio.
Essere riuscita ad andare spesso a trovarlo in ospedale o, quando c'era una festività e gli davano il permesso di uscire una giornata, a casa, mi rende più serena; anche se non voleva che io partissi così spesso, e non capiva che era una mia esigenza esserci e poterlo toccare, abbracciare e guardare.
Lo zio.
Che accorgendosi di un momento di debolezza di mia sorella ci ha detto di essere sereno e che noi dobbiamo stare tranquilli.
"E cosa credi? Muoiono bambini, madri di famiglia giovani come l'acqua, chi sono io per non poter affrontare una cosa così. Cinquantasette anni li ho vissuti, lotterò per averne ancora un po', certo, mi girano un po' le balle perché ho ancora tante cose da fare ma, se non dovesse andare come vorremmo, voglio che stiate tranquilli. Io sono sereno."
E non abbiamo mai più toccato l'argomento.
Lo zio. Che lunedì mi ha vista arrivare e mi ha fatto lo sguardo di rimprovero. Lo zio, che quando gli ho detto "cos'è quella faccia, posso darti un bacino?" ha tirato su il pollice e l'ho potuto baciare due volte, ma alla terza ha girato il viso dall'altra parte, perché voleva proteggere me e lui dall'emozione forte.
Lo zio. Che l'indomani si è addormentato tra le braccia di mia sorella e quelle di mia mamma. Lucido fino alla fine, senza dolore fisico, quello almeno sono riusciti a tenerlo a bada, senza lamentarsi, in silenzio, con i suoi pensieri, il nostro amore e tutto il suo. Dato e da dare.
Più le persone sono grandi e maggiore è lo spazio che occupano.
Oggi c'è un grande vuoto dentro me.
Si dice che il tempo aiuti a guarire molte ferite e penso che le cicatrici servano per non dimenticare. Aspetterò che il dolore si trasformi in nostalgia, accarezzerò il segno che ho dentro e mi consolo come posso, ripensando alla spontaneità di quel giorno di circa un mese fa.
"Grazie zio, ti voglio bene."
"Lo so stellina, ti voglio bene anche io."



giovedì 24 aprile 2014

Il cuore di chi legge

Chissà a cosa pensano i libri sugli scaffali, quelli che vengono ammirati da chiunque passi di lì, magari presi in mano, soppesati, accarezzati, guardati e mai sfogliati veramente.
Vite mai vissute.
Chissà come si sentono le parole all'interno di quella copertina colorata dal titolo invitante, ma non abbastanza da essere sussurrata, vista e memorizzata in ogni dettaglio.
Nero su bianco.
Chissà se la copertina rabbrividisce quando lo sguardo l'accarezza o se il cuore batte quando una voce legge dentro.

È una giorno dal respiro forte, fresco e una primavera che non ha voglia degli effetti speciali di un'estate anticipata, anche se il cielo implora. E penso ai libri che non ho letto.
"se dovesse allagarsi casa, non ho finito il libro sul comodino e neanche iniziato un po' di storie che aspettano me".
Non è pessimismo, però mi capita spesso di pensare a questo. Se accadesse qualcosa lascerei molto in sospeso, cose che potrebbero anche arrabbiarsi con me. Io: quella che in libreria guarda titolo e autore, legge la trama e qualche pagina del primo capitolo, giusto per capire se c'è feeling; un po' come un caffè insieme, un aperitivo e una pizza. Poi, se va bene, si passa alla cena, la prossima volta. Sì, io: quella che ha scelto proprio quel libro perché gli sguardi non mentono, e quelle parole avevano una voce ben precisa. Un timbro profondo di quelli che piacciono a me. Scelto, tra decine di volumi. Proprio quello, e poi cosa faccio? Lo lascio in standby per mesi e, quando riprendo le parole negli occhi, divento avida, non mi bastano più. Ma non ora.
In questo periodo non ho la testa al posto giusto per leggere; troppi pensieri che spingono per essere visti, scritti, accarezzati e trattenuti. Consolati.

È un pomeriggio da librone gigante sulle gambe, con tante figure colorate e le lettere in grassetto da seguire con il ditino, sussurrando la storia, soffermandomi sulla parola difficile e riprendendola dall'inizio ogni volta che mi bloccavo, meravigliandomi delle correzioni che arrivavano dall'adulto accanto a me che mi ascoltava. Nonna, mamma e papà avevano probabilmente letto il mio libro mentre stavo dormendo, più divertente del manifesto pubblicitario, almeno il libro non scivolava via sulla strada. Avrei voluto leggere Pinocchio, ma a cinque anni impari che le bugie non si dicono, però, prima di leggere un libro vero meglio una storia illustrata, perché io non volevo Pinocchio della Disney, volevo quello che stava leggendo mia sorella, scritto in toscano, con le parole piccole piccole; non volevo Cuore né Oliver Twist, anche se erano lì nella nostra cameretta ad aspettarmi e sussurravano "coraggio, sbrigati a crescere e vieni a vivere con noi", ma Pinocchio era il mio vaso di nutella sulla mensola, in alto.
Me lo leggeva mia sorella, ogni tanto,  e quando non ne aveva voglia lo divorava con gli occhi, in silenzio, mentre io coloravo e la spronavo a parlarmi. Intanto pensavo che da grande avrei letto tutti i libri e a lei non avrei raccontato niente, e, se per caso li avesse già letti prima di me, avrei inventato un finale diverso, per farle provare la voglia di conoscere quelle avventure, senza immaginarle a casaccio.

Cuore aveva fatto piangere mia sorella, no, non la storia, ma il libro.
A Natale c'era sempre il regalo principale, quello che faceva brillare gli occhi, e poi, c'erano anche piccoli pensieri ricevuti dalle nonne, dalle zie o colleghe della mamma,  alcuni di questi erano cose "utili": dal paio di mutandine, calze, al giochino che si smontava a Santo Stefano e finiva per essere tumulato in un cassetto, senza vita e senza amore.

Da quando mia sorella aveva iniziato la scuola, circa tre anni, a lei, arrivava spesso anche un Libro adatto alla sua età, a me il solito album illustrato da colorare, che però iniziava a non piacermi tanto quanto prima. Quell'anno, dopo aver aperto il pacco forte che conteneva la carrozzina per la mia bambola e un set completo per la pappa, il "Babbo Natale della Stefania", collega di mamma (i regali non arrivavano mai dalle loro mani, finivano sotto l'albero e poi c'era Babbo Natale ufficiale  e Babbo Natale della nonna, della zia ecc.), mi aveva portato un grosso libro su cui esercitare la lettura: Biancaneve e i sette nani. Il primo libro tutto mio; c'erano le figure anche, d'accordo, ma la storia era scritta, e non vedevo l'ora di iniziare a leggere. Ricordo di aver pensato che il Babbo Natale della Stefania fosse stato molto buono, magico come sempre, perché aveva capito che mi ero stufata di colorare. Stringendo questo libro dalla copertina rigida e più largo del mio petto, osservavo il pacchetto nelle mani di mia sorella, era più piccolo del mio, sicuramente un libro, e quando la carta colorata era stata strappata e accartocciata, la faccia di mia sorella aveva cambiato espressione. Aveva le lacrime agli occhi, guardava il mio libro e piangeva in silenzio, delusa. Ricordo vagamente la paura che mi chiedesse di fare cambio, stringendo un po' di più il mio tomo, ero corsa via, al sicuro, rannicchiata per terra accanto all'albero di Natale osservavo la copertina e cercavo d'immaginare il carattere, il cuore e la personalità di quell'avventura.
Oh, certo, conoscevo la storia di Biancaneve e i personaggi in copertina erano proprio loro; i nanetti c'erano tutti, incluso Gongolo con le sue guanciotte rosse, c'era la strega, gobba e vestita di nero, con il naso adunco e gli occhi in fuori, quella che mi terrorizzava solo a ricordarla, e, mentre a pochi passi da me si consumava una tragedia a causa di un libro triste, io sollevavo leggermente la copertina per respirare l'odore di quelle pagine lisce e fresche.

È una serata da plaid sulle gambe e "mamma ora leggi tu che sono stanca".

Ho letto più volte Biancaneve, da cima a fondo, prima di passare a Pinocchio di Collodi. I patti erano quelli: "Quando saprai leggere un po' meglio, inizierai Pinocchio." E m'impegnavo, leggevo le cattiverie della matrigna, mentre la mia testa era sulla mensola della cameretta dove c'era Pinocchio, e chiedevo a mia sorella di dirmi ancora l'inizio:

"C'era una volta...

- Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr'Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura."

Lo conosceva a memoria, lo avevo imparato anche io, ma nessuno poteva raccontarmi la storia di Pinocchio, le nonne, la mamma e chiunque si cimentasse per intrattenermi durante una giornata di pioggia, sceglieva storie mai sentite dagli altri bambini,  credo che la stanchezza di mia mamma o della nonna abbia inventato Un Cappuccetto rosso molto alternativo (avevo paura del taglio della pancia del lupo, quindi gli servivano una tisana talmente amara da fargli sputare tutto. Inclusa la nonnina. Io ero tranquilla e ridevo perché pensavo che un intruglio amaro era quello che meritava quel lupo cattivo. Tipo quando volevano farmi bere il brodo vegetale e pensavo sempre di essere stata punita per qualcosa.)

È un pomeriggio da libro, birra e sigaretta. Un pomeriggio da disegnare volti e paesaggi, da quattro stracci nella valigia e via di corsa tra le pagine di una stazione, tra le pieghe di un'avventura già scritta, tutta da disegnare con i tratti che preferisci.
Intanto fuori c'è il vento e se si allagasse casa dovrei afferrare il libro sul comodino, quello dimenticato. No, quello accantonato perché non è il momento, perché scrivo e disegno un'altra storia, perché se sono stanca mamma non me lo legge, perché se lo apro leggo parole e disegno altro.

È un pomeriggio da tendere l'orecchio e ascoltarli tutti, i libri sugli scaffali; i fantasmi di sconosciuti che si sbrigavano a finire una storia prima che la pioggia allagasse i manoscritti, voci che sussurrano, come una folla numerosa di religiosi che recitano preghiere differenti, tutte rivolte allo stesso Dio, ma con nomi diversi. E guardo la mia libreria dalle copertine colorate, lucide, ruvide, consumate, rigide e morbide. Emozioni tascabili e pesanti tomi dai facili costumi. I libri invecchiano ma, se li sfogli, rivedi la pelle liscia delle parole, gli occhi vispi dell'avventura acerba e la voglia di sorprenderti ancora. I libri sono eterni e, quando la casa è avvolta dal silenzio, parlano tra loro scambiandosi la memoria tattile, ricordando ogni brivido dato e ogni lacrima scivolata.
I libri hanno un cuore. So che dovrebbe essere quello di chi lo ha scritto, ma non per me. Ogni libro letto ha il mio cuore, ogni storia ha i miei occhi e il mio dipinto. I libri riposano e sbadigliano, mentre fuori soffia il vento e porta a spasso petali e parole di bambina, sussurrate e accarezzate con il citino, pronte a salpare per una nuova avventura sul mare delle pagine ingiallite. Sfilano davanti ai miei occhi stanchi e torno a essere quella bambina dallo sguardo gioioso.

Un anno dopo Biancaneve.
Il mio secondo libro. Perché è vero che la prima volta non si scorda più, ma la seconda è più bella.




martedì 22 aprile 2014

In viaggio da una vita

Non saprei da quanti silenzi sia composto un pensiero. Forse dieci, cento, uno o niente. E, mentre le persone parlano, io penso. Penso ai fatti miei, penso a ricordi o eventi immaginari; penso a quello che è azzardando un "che sarà?", di passaggio, mentre le persone sono convinte di parlare con me, mentre diventano rumori di fondo, mentre tutto diventa relativo, soprattutto, il silenzio.
Un rifugio per le mie evasioni.
Con un'espressione poco convincente, eccomi qui: l'eterna assente, in fuga dalle parole, nel mio angolo arredato di pensieri privi di voce che ogni tanto mi strappano un sorriso di quelli che speri ti abbiano appena detto qualcosa di divertente, così non passi per pazza.
Penso e sorrido, penso e aggrotto la fronte, penso e guardo la gente muta che muove le labbra.
Non ci sono persone, è la tv che parla, e io penso che solo nei film il conduttore di un programma sospenda la trasmissione per rivolgersi proprio a te. A te che stai pensando, e non può tacciarti come persona "distratta" solo perché non t'interessa sapere chi sia figlio di chi o cosa comprenda l'eredità di figli legittimi e non, perché in una scatola ci stanno giusto piccole marionette, mica persone in carne e ossa.
È solo la tv, sono libera di aggrottare la fronte e pensare, con il rumore di fondo degli applausi, quanti applausi entrano in un pensiero? Dieci, cento, uno o niente; come la volta in cui, dovendo andare via un intero weekend per motivi di lavoro con il collega che mi stava facendo una corte serrata, decisi di andare a scoprire le sue carte aiutando la sorte (e un po' anche lui, che parlava troppo senza agire).
Rumore di fondo, è solo pubblicità.
Quanti anni sono passati? Tanti, troppi, ero via da casa, facevo il lavoro più bello del mondo, quello che coltivavo fin da piccola. Toccava a me chiamare l'albergo a Torino, lui era in diretta e non aveva tempo. "Prendiamo una camera doppia, abbiamo un budget da rispettare, rimborsano fio a un certo punto", mi disse, era ora di vedere le sue carte. Gli applausi nella mia testa, quel giorno, mi avevano strappato un sorriso fiero, senza sapere che, in un futuro vicino, quel sorriso sarebbe stato gettato nel tombino dei coriandoli di Pierrot.
Spengo la tv, metto un po' di musica, fa meno rumore della mosca che sta ronzando attaccata al vetro della finestra.
Chissà a cosa pensano le mosche quando si disperano su un vetro, chissà se si lamenta del rumore dei tasti, digito piano. I pensieri non devono essere disturbati e le mosche non pensano, forse, ma con me non regge questa scusa, io sono quella che non buttava via quel sassolino perché si sarebbe sentito abbandonato, dopo tutti questi anni, per non parlare del tappo della bottiglia di spumante di quella sera, è sempre lì, nel cassetto delle posate e non serve, non pensa e non lo utilizzo, ma non posso buttarlo via, sarebbe come giustiziarlo, chissà che tristezza.
Quanti ricordi si possono mettere in una pausa caffè? Se nessuno ti parla, dieci, cento, uno o forse niente, tutti insieme. Come una corsa in autostrada, come la visione periferica che scorre, che ti fa ricordare volti, colori e vestiti che avevi dimenticato. Frasi dei tuoi dieci anni, baci dei diciotto, pelle dei venticinque e odori di una vita. In viaggio con te stessa, da sempre, zingara di momenti che porti in giostra senza scendere, nemmeno se lo volessi. Altro giro altro regalo, la mosca tace e la musica viaggia con me.
Mettiti nelle mie mani.
E tu pensi che siano troppo piccole quelle mani, per contenerti tutta, ma ho sempre fatto confusione tra mani e cuore, forse perché tamburello spesso con le dita e faccio rumore infastidendo la stanza vuota che aveva solo voglia di pensare senza mosche, senza applausi e senza occhi che si domandano se li stai ascoltando.
Allora cambio la domanda, senza aiuto del pubblico, senza raddoppio né altro.
Quanti pensieri riescono a entrare in un silenzio?
Questa la so.
Tutta la tua vita.
Una lunga memoria intera.




domenica 23 marzo 2014

La voce della pioggia


È la notte perfetta per non so cosa, ma la percepisco così. Arrabbiata, ferma e decisa.
Piove controvento, un rincorrersi di acqua e aria fermati dalla finestra illuminata dal bagliore di questa ira.
È una notte che alza la voce e conto quanto tempo passa tra il flash e il ricordo: "uno, du…" troppo vicino, le mani sulle orecchie e gli occhi chiusi, ma sento e vedo, allora coloro di blu, quello è sempre a portata di mano perché non si sa mai.
È una notte da testa sotto il cuscino, soffoco, allora meglio sotto il piumone, perché a me il temporale non piace viverlo così.
La pioggia è diversa, ma la pioggia arrabbiata non ragiona ed è capace di tutto. Io lo so e non ci penso, mentre controllo l'ora ed è tardi quanto basta per andare a dormire, riguardo la sveglia ed è troppo presto per l'alba. Bagliore, tuono, accarezzo il mio Blu e mi tranquillizzo, forse ora smette, forse non c'è più, forse "uno, due, tre, qu…" si allontana, e tiro fuori la testa, abbraccio il cuscino con la mano colorata e lo sguardo altrove.

E se la stringi sarà come dormire sotto lo stesso cielo, o nuotare nello stesso mare.

È solo la notte, è Blu.

mercoledì 12 marzo 2014

L'illusione di una clessidra

Mi affascina da sempre l'aspetto del tempo in tutte le sue forme. Il suo scorrere inesorabile restando intatto. Il passaggio silenzioso, a tratti sfacciato, la sua bellezza che coglie i dettagli di stagioni diverse e li ferma quel tanto che basti per capovolgerlo.
Ho due immagini, su tutte, per identificare l'amico nemico di sempre, una è quella che spesso viene attribuita all'anno vecchio che lascia spazio al piccolo nella culla, l'infante che strilla svegliato dai botti e festeggiamenti, mentre un curvo signore con la barba lunga e il bastone si allontana, ecco, quello è Padre Tempo che passa, che va, che non torna, che è arrivato in fondo. Da piccola pensavo fosse come un nonno, lo vedevo ritratto in vignette più o meno tutte simili, mi angosciava un po', era come se l'inesperienza prendesse il posto della saggezza, sì, come quando le mie amiche preparavano qualcosa per me e quei pasticci non erano buoni come la merenda che preparava la nonna, perché la nonna, con il tempo, aveva imparato a fare la torta paradiso più buona del mondo e quando rientravo da scuola si sentiva il profumo dal primo scalino, allora affrontavo quella lunga rampa senza sentire il peso della cartella sulle spalle, la mollavo nell'ingresso, mi spogliavo dell'odore di cancelleria della grigia aula scolastica, lavavo le mani e mi aspettava una tazza di latte fumante con una fetta di questa torta alta, soffice e tiepida. Il tempo aveva insegnato molte cose alla nonna, e lo guardavo nelle immagini, vecchio, con la barba e i capelli bianchi, curvo, ma la nonna era più giovane e non aveva barba e bastone, quando è stata toccata dal tempo non era neanche curva e zoppicante, ma il tempo non si traduce solo in età, il tempo passa e ti accarezza, ti schiaffeggia, si ferma a insegnarti qualcosa o ti ferma con quello che gli gira per le mani.

Tempo tiranno, tempo al tempo che cancella o porta via sogni, risate, dolori e persone. Breve, lungo, interminabile mai, il tempo finisce e, passando da qualche parte lascerà il profumo della torta paradiso a qualcuno, mentre tu la evochi nella mente e l'assapori nel cuore.

La seconda cosa che mi fa pensare al tempo è un oggetto che amo e mi affascina da sempre: la Clessidra.
Amo l'idea delle ore intrappolate in ampolle sottili, così fragili da esplodere in schegge di ricordi. Una clessidra, le curve morbide e lisce del corpo di una donna che racchiude la ruvidità dei pensieri mai scritti.
Dita come clessidre, mani tuffate in un sacchetto di riso o di legumi secchi, come Amelie, e fai scorrere il tuo tempo così, in riva al mare, dove la sabbia non viene abbracciata dall'acqua ma posseduta dal sole, sprofondi piedi e mani e lasci che scorra, che passi e scaldi. Niente barba o bastone, resti lì e pensi che vorresti una clessidra, per intrappolare il profumo della torta paradiso, il sapore del primo bacio, la ruvidità di quella barba o due odori mescolati.
Una clessidra, tempo che si fa piramide ai piedi dell'infanzia, attimi che piovono dal cielo, trascorsi che riempiono il suolo e, volendo, minuti che si ripetono dando scacco matto al tempo, fermandolo e invertendo la sua marcia. E ti ritrovi a testa in giù, con tanto da rifare, e prima dello scadere dell'ultimo granellino, ricominci ancora.
Una clessidra, illusione di non passare mai, elegante e sinuosa.
Mi piacciono le clessidre, una cosa di me che è sempre saltata fuori, presto o tardi. Mai qualcuno che lo abbia ricordato, infatti non ne ho una e probabilmente me la comprerò per guardare la notte passare quando non dormo, la capovolgerò per farla ricominciare, perché non ero ancora pronta per dormire; oppure fermerò il tempo di un abbraccio, di un ti voglio bene o sulla risata di un bambino al parco giochi.
Una clessidra, per accarezzare il tempo distraendosi dai segni che affiorano sulla pelle, per sorridere senza paura, quando sei a metà strada o quando hai il bastone e senti l'infante urlare perché venuto al mondo.
Una clessidra accanto agli impersonali orologi, anacronistica e così appropriata, chiusa in una teca. Sfacciata, senza pile e senza carica, solo le tue mani che decidono quando è ora di darsi tempo; una sfida che conduci tu, almeno, finché il gioco resta chiuso in un'ampolla così sottile, mentre i tuoi fianchi vengono stretti e accarezzati da mani senza tempo, durante lo scorrere della vita. Stringi forte e ricominci, perché la sabbia è sangue.




lunedì 20 gennaio 2014

… e poi ci sono io…

… quella che conosce le proprie potenzialità, come tutti noi, che le sfrutta in tutto e per tutto, sperando e tentando di farlo al meglio. Che si dosa solo se poco convinta e, all'occorrenza, si riposa, chiudendo in fretta ogni rubinetto, economa di qualsiasi emozione.

… e poi ci sono io…
… quella che se ti sono amica ti dice "hai fatto male", però ti voglio bene lo stesso. E, se me lo chiedi, ragiono con te su come uscire dalla situazione critica in cui ti sei cacciata, ridendo anche, o dicendoti che ti farai male, ma la ferita deve essere disinfettata.

e poi ci sono io…
… quella che ci resta male se mi volti le spalle perché sono stata leale e ti ho detto quello che pensavo, allora la prossima volta osservo e alzo le spalle, senza dire nulla, perché ho paura di soffrire scoprendo che con te non potevo essere me stessa.

… e poi ci sono io…
… quella che ha sempre avuto l'orgoglio negli occhi vedendo l'amica bella con un abito fatto su misura per lei, che ti consola se, nonostante la tua bellezza, lui è l'unico che non ti guarda. E mentre ti consolo ti dico che, non avendo più vent'anni, forse sarebbe ora di puntare anche su altro; ridendo con te di questo, sapendo entrambe che è vero.

e poi ci sono io…
… quella che non rinnega un'amicizia o un amore, solo perché finiti. Quella che, quando non eri più mia amica ti ha avvisata "da ora in poi non dirmi più nulla. Ma ciò che mi hai detto o hai fatto fino a due minuti fa, lo porterò con me nella tomba.".

e poi ci sono io…
… quella che incassa e sorride se le dici brutta, ma le viene da piangere se pensi oca.

e poi ci sono io
… quella che ha paura di essere elogiata troppo, che quando accade non sa cosa dire e gira le cose in modo da spostare il riflettore. Quella che odia la falsa modestia, ma ha paura di stare in prima fila, e fa sempre un passo indietro, per essere "amata" di più.

e poi ci sono io…
… quella che resta pietrificata di fronte al dolore e, accecata dalla rabbia, piange. Perché sa che sta per dire cose che ti feriranno, ma in quel momento non importa, perché la rabbia ha bisogno di colpire e allora piango prima, mai dopo. Dopo ti abbraccia, e tu sai che non ero io quella.

e poi ci sono io…
… quella che ha paura della morte delle persone care, anche della mia, perché "chissà quanto soffrirebbero loro, se succedesse a me" e per vigliaccheria accantona tutto e cerca un pensiero frivolo, uno qualsiasi, e se non ne trova ne prende uno in prestito.

e poi ci sono io…
… quella che aspetta la neve, ama l'inverno e quando piove sorride, mentre il mondo intorno bestemmia.

e poi ci sono io…
quella che ha paura di disturbare, che prima di bussare passa davanti alla tua porta decine di volte e va dritta, quella che se trova aperto chiede "permesso" e se trova un sorriso si mette comoda e non ci pensa più.

e poi ci sono io…
quella che avverte quel vago senso di disagio di fronte a un certo tipo di persona, ma anche quella che non mette a loro agio i curiosi o i pettegoli; nessun merito, sono loro a starmi alla larga.

e poi ci sono io…
… quella che non si vergogna d'imparare dagli altri, e tace di fronte a un argomento sconosciuto, ma apprende. E ringrazia.

e poi ci sono io….
… quella che se le hai già detto quella cosa cinque volte, ma capisce che hai bisogno di parlare, fa finta di nulla e si meraviglia come la prima, ma se ti parli addosso, non ti perdona la seconda ripetizione.

e poi ci sono io…
… quella che ha fatto tante cazzate, consapevole che ne farà altre. Tutte proporzionali al tempo che passa, e diffida di chi dice di non averne fatte.

e poi ci sono io…
quella che detesta i "te l'avevo detto", ti avvisa prima e dopo fa finta di nulla.

e poi ci sono io…
… quella che dà, senza aspettarsi qualcosa in cambio, ma se si accorge che dai per ricambiare e dai solo quando hai preso, smette di offrirti anche un brustolino.

e poi ci sono io…
… quella che non entra mai in competizione con altre donne, se non con se stessa, quella che è ancora capace di provare orgoglio e gioia di fronte a una Donna intelligente e imbarazzo di fronte a una vuota statuina.

e poi ci sono io…
… quella che riconosce i tentativi standard, che detesta i complimenti seriali e che non vuole essere sorpresa, ma si sorprende quando non ha chiesto nulla.

e poi ci sono io…
… quella che ama cucinare e si rilassa così, che non ama le spa perché non mi piace essere toccata da mani estranee e, al sushi o affini, preferisce una grigliata di carne in giardino.

e poi ci sono io…
quella che pregi e difetti sono cose che non mostro, perché miei, ma se li scopri sorrido e arrossisco.

e poi ci sono io…
quella che borse, scarpe e abbigliamento "la noia", però fa strage in profumeria, libreria, negozi di articoli per la casa e musicali.

e poi ci sono io…
… quella che non ha mai scritto né parlato così tanto di sé. Quella che. Migliore o peggiore, mai uguale a nessun'altra. Come chiunque.